Economia
Paleari: «impresa e università costruiscano dialetticamente il futuro»
Abbiamo incontrato nel suo ufficio di via Salvecchio, in Città Alta, Stefano Paleari, classe 1965, rettore dell’Università degli studi di Bergamo dal 2009. Nell’intervista esclusiva rilasciata al nostro mensile il rettore ha dunque affrontato uno ad uno i problemi del paese, dell’Università e di Bergamo inframezzando il discorso con inglesismi e aneddoti personali. E parla con passione dei suoi studenti, che vorrebbe aiutare a competere in un mondo sempre più globale e dalla concorrenza agguerrita.
Paleari, partiamo dal dialogo tra Università e impresa, in un periodo di difficile congiuntura economica come quello attuale. Come si colloca l’ateneo bergamasco in questo contesto? Noi vediamo il rapporto con l’impresa sotto diversi punti di vista: in primis l’occupabilità dei nostri laureati, indice che ci pone ai primi posti in Italia. Per valutare un’Università ci sono 50.000 parametri, ma quello che sta a cuore alle famiglie per il proprio figlio è che trovi un posto di lavoro dopo la laurea e che riesca a fare esperienze a livello internazionale durante il proprio percorso di studi. Non è un caso, dunque, che l’Università degli studi di Bergamo non abbia perso studenti in questi anni, mentre in Italia è avvenuto proprio il contrario. Per ottenere questi risultati abbiamo dovuto modificare la nostra natura: siamo arrivati al 39% di iscritti al primo anno provenienti da fuori provincia, oltre a 830 studenti stranieri, che rappresentano il 5,5% del totale. Sono tutti aspetti molto impegnativi per noi, ma la strada è quella. Abbiamo inoltre innalzato il livello qualitativo delle lauree magistrali: oggi ne abbiamo cinque in inglese, mentre tre anni fa non ve ne era alcuna. Siamo perfettamente consapevoli della dinamica che si sta determinando nel paese e il rapporto tra università e impresa va visto da più angolature: anche oggi, pur con difficoltà ci stiamo difendendo molto bene. Otto nostri studenti su 10 trovano infatti un lavoro entro un anno dalla laurea.
Il mondo del lavoro è in rapida evoluzione. Riuscite a tenervi al passo? In questa fase delicata occorrono spirito di collaborazione e lungimiranza. Occorre rispondere alla domanda: quali saranno le professioni del futuro? Il mondo è cambiato in questi anni e con esso anche il lavoro, ad una velocità impressionante. In questo senso il nostro rapporto con le imprese non deve essere da “follower” (colui che segue), bensì da “leader” (colui che guida). Sia l’Università che l’Impresa devono dunque essere coloro che seguono e anticipano ciò che si sta determinando: per questo motivo tra queste due realtà ci deve essere un rapporto costruttivo e dialettico.
Lei prima di diventare Rettore è stato ricercatore alla Facoltà di Ingegneria di Dalmine, branchia dell’Università di Bergamo che ha saputo coltivare un rapporto stretto con il territorio... E’ vero. Da quell’esperienza ho saputo apprendere una conoscenza molto puntuale dei sistemi economici territoriali, beneficiando di un rapporto diretto con le persone. Detto questo, ho imparato molto anche da chi non proveniva strettamente dal mio mondo: sono orgoglioso di essere rettore di un’Università generalista, dove la complessità di governo è molto maggiore. Ricoprendo questo ruolo mi sono interfacciato con letterati, filosofi, economisti, giuristi: per me, questo ha significato sviluppare una visione d’insieme. Da un lato mi sono pertanto arricchito molto, dall’altro credo di aver dato il mio contributo in maniera proficua.
La disoccupazione giovanile ha raggiunto livelli drammatici: a luglio, secondo l’Istat, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni era del 42,9%. Lei è anche presidente della Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e, dunque, uno dei principali interlocutori del Ministro Giannini. Come bisogna affrontare secondo lei, questo grave problema?
Come Università, a livello nazionale, il problema dei giovani è il primo problema. Si è mai visto un paese prosperare senza i suoi giovani? No. Per questo motivo la questione giovanile deve essere al primo posto in Italia: per cercare di risolverla ognuno deve fare i conti con i propri mezzi. Come Unibg abbiamo puntato molto sugli assegni di ricerca, sui contratti a tempo determinato: nel 2009 erano 43, oggi sono 100 e tutti giovani. Mi piacerebbe arrivare a 150 nel prossimo anno. A livello nazionale l’unica priorità che mi sento di indicare è un piano straordinario per i giovani affinché si inserisca nel sistema universitario nuova linfa: lo sa che l’età media dei professori universitari italiani è di 54 anni? Io smetterò di fare il rettore a 50, c’è qualcosa che non funziona. A fronte dei pensionamenti di professori universitari, inoltre, non sono entrati i giovani: i giovani pensano al futuro e noi dobbiamo avere a cuore il tema dell’attrattività del nostro paese. Ha dunque senso formare i nostri ragazzi nel modo migliore e poi servirli su un piatto d’argento agli altri paesi? Non basta avere un Presidente del Consiglio giovane per risolvere la questione giovanile: l’anagrafe è una cosa, la politica per i giovani è un’altra.
Nella sua lettera aperta “Unibg 20.20” ha indicato una crescita del numero di studenti pari al 20% in sei anni, per arrivare a quota 20.000. Come può avvenire un aumento tanto considerevole a fronte di un trend in diminuzione o comunque a un calo generale degli iscritti?
Può avvenire a patto che il calo degli studenti degli ultimi 5 anni non si replichi nei prossimi 5. A fronte di un calo nazionale del numero di iscritti, l’Università di Bergamo ha mantenuto livelli pressoché stabili: se dunque a livello nazionale ci sarà stabilità su questo fronte, anche noi potremo crescere. Sono obiettivi singolarmente realistici e che in passato abbiamo giù raggiunto: non ho voluto porre obiettivi record per ogni corso di laurea, ma migliorare le loro performance nel complesso potrà farci arrivare a quel numero di studenti. Ci sono inoltre altre variabili che potrebbero concorrere: la riduzione degli abbandoni e dei fuori corso, oltre alla frequenza dei corsi universitari di studenti di ritorno, detti anche “adult student”. Stiamo parlando di uno scenario molto diverso da quello che abbiamo visto negli ultimi 15 anni.
Secondo la classifica degli Atenei italiani, stilata dal Sole 24 Ore, Bergamo è al 34° posto. E’ soddisfatto di questo risultato?
No, affatto, e le spiego subito il perché. Le classifiche devono essere qualcosa di toccabile, di tangibile e glielo dice uno che ha una vera e propria passione per i numeri. Una classifica delle Università deve rispondere ad alcune domande ben precise: copri o non copri il diritto allo studio? Nella classifica del Sole questo aspetto non conta niente. In secondo luogo, quanti sono gli iscritti da fuori Regione? Anche qui nulla. Non possono inoltre avere meno peso occupabilità e mobilità internazionale, aspetti su cui abbiamo raggiunto livello elevatissimi. C’è infine un punto che mi lascia sorpreso, se non interdetto: in quella classifica non c’è alcun parametro relativo all’efficienza. Ma come, la classifica di un quotidiano che è riferimento del mondo delle imprese e della classe dirigente del Paese non si pone il problema dell’efficienza? Le Università statali di tutta Italia utilizzano risorse pubbliche: ebbene, nel momento in cui si stilano classifiche, c’è qualcuno in grado di dirmi se le spendiamo bene o male? Le dico solo che noi dallo Stato riceviamo 2.400 euro per studente, a fronte di una media nazionale di 4.000. Le classifiche vanno fatte in un quadro di regole comuni, non arbitrariamente: quello che non ritengo giusto (usa l’inglese “fair” per spiegare il concetto, ndr) non è la classifica, per carità, bensì il metodo con cui è stata fatta.
Lei è all’ultimo anno di mandato e più volte si è parlato di un suo eventuale ingresso in politica. Farà davvero il grande salto nell’arena pubblica?
Quando ero studente ero uno che si applicava, ma dedicavo molto tempo anche agli sport. Ero consapevole che riuscivo a fare una cosa sola per volta e anche adesso riesco a fare una cosa sola per volta. In questo momento sono impegnato per l’Ateneo e lo sarò fino all’ultima partita, fino all’ultimo mese. Per me quello del ricercatore resta comunque il più bel lavoro del mondo.