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Garattini: «Mamme e papà, vaccinate i vostri bambini»

novembre 2017

Mentre percorre i corridoi del suo Mario Negri (il celebre Istituto di ricerche farmacologiche che guida da più di mezzo secolo) capisci perché qualcuno - forse folgorato dall’alone di austerità ascetica che sprigiona - lo abbia definito un “missionario laico”, capace di consacrare la propria esistenza a una sola fede: la scienza. Perito chimico, medico, ricercatore, docente di Chemioterapia e Farmacologia, autore di centinaia di pubblicazione apparse su riviste nazionali e internazionali, un’infinità di incarichi e onorificenze (Legione d’Onore della Repubblica Francese; consulente dell’Organizzazione mondiale della Sanità; membro del Consiglio nazionale di ricerche; fellow della New York Academy of Sciences; fondatore della European Organisation for Research and Treatment of Cancer di Bruxelles): e non è che una breve sintesi. Silvio Garattini - bergamasco di nascita, cittadino del mondo per vocazione - ha dedicato ogni giorno dei suoi quasi 89 anni alla ricerca, alla formazione e all’informazione. Senza mai perdere di vista la bussola dell’indipendenza (dalla politica, dalle ideologie, dall’industria farmaceutica, dalla finanza). Informare, dicevamo. Anche a costo di sostenere tesi impopolari o trattare tematiche spinose: da quarant’anni convive con insulti e minacce di morte da parte degli animalisti, che non gli perdonano l’essere a favore della sperimentazione. Non si sottrae, dunque, quando gli si chiede di pronunciarsi in merito alla questione calda degli ultimi mesi: i vaccini, nonché l’affermarsi di una corrente “no vax”.
Fino a qualche decade fa nessuno osava mettere in discussione il parere di un medico. Oggi una mamma che, per dire, fa l’impiegata, contesta la parola di un immunologo. Come ci siamo arrivati?
«Si tratta di un problema complesso, con radici profonde: la società ha perso la fiducia nei confronti dell’autorità in generale, che si tratti dello Stato o di un camice bianco. Situazione aggravata dalla considerazione che in Italia si ha della scienza: non è ritenuta cultura, come invece accade per la filosofia, la letteratura e il sapere giuridico. Inoltre, non è mai stata insegnata a dovere: ne sono la prova i programmi scolastici.Se la gente avesse assimilato i principi su cui si fonda - ad esempio il rapporto causa/effetto - nessuno si sognerebbe mai di credere alla correlazione tra vaccini e autismo: analizzerebbero le prove. A tal proposito, l’autore della ricerca - l’inglese Andrew Wakefield - è stato condannato e radiato per aver propagandato una notizia completamente sbagliata. Vede, la scienza è la nostra Cenerentola: se qualcuno si azzarda a dire che Garibaldi è un pittore dell’Ottocento, gli scoppiano a ridere in faccia; eppure è normale confondere atomi e molecole: guai a precisare che sono ben distinti, perché ti danno del pignolo. La mancanza di principi genera confusione: lo vediamo oggi, con il dubbio in cui brancolano le madri, che ricorrono a Google - anziché alla medicina  - per capire se sia giusto vaccinare i figli. La corrente “no vax” usa argomenti emotivi per accentuare i danni da vaccino: esistono, inutile negarlo. Ma nessun farmaco è esente da effetti collaterali: bisogna focalizzarsi sui benefici. È molto più rischioso, a livello statistico, far salire ogni giorno i propri figli su un’auto. I genitori di oggi non hanno visto quali conseguenze devastanti avessero certe malattie, ormai scomparse. Dicono: “La polio non c’è più: perché devo vaccinare mio figlio?”. Ma il punto di osservazione è un altro: “La polio non c’è più, proprio perché ci si vaccina”. Purtroppo, la colpa è anche nostra: di medici e ricercatori. Siamo colpevoli di aver creduto che tutto fosse stato assimilato: non abbiamo previsto che internet e i social avrebbero cambiato le cose. Che, se non hai i principi scientifici, un’informazione contraddittoria genera confusione».
Il decreto Lorenzin, con l’esclusione dei bambini non vaccinati dalla materna e le multe alle elementari, ha suscitato parecchie critiche.
«Ma è la logica conseguenza: quando si mette in pericolo la popolazione, bisogna imporre l’obbligatorietà. Di fronte a una minaccia sociale non può scegliere soltanto il genitore per il proprio figlio, che non è in grado di decidere. Senza pensare a quei piccini che non possono essere immunizzati perché hanno gravi problemi di salute: vanno tutelati.  La vaccinazione è importante a livello sociale, pubblico e solidale. Si parla impropriamente  del diritto di libertà, ma la mia libertà finisce dove lede quella degli altri: è un po’ come passare col rosso».
Cosa pensa dell’immunologo Roberto Burioni che sulla sua pagina Facebook, al motto di “il vaccino non è un’opinione, la scienza non è democratica” bacchetta quelli che lui definisce “somari”?
«Lo conosco, ma personalmente preferisco un altro atteggiamento: spiegare ed educare, senza bacchettare».
Peggio i medici “no vax” o quelli fissati con l’omeopatia, da lei ribattezzata “acqua fresca”?
«Li accomuna il non aver recepito gli insegnamenti della scienza: si affidano a superstizioni, magie».
All’alba degli 89 anni ne dimostra una ventina meno. Immagino abbia una condotta alimentare irreprensibile: magari non consuma proteine animali, come predica il dottor Berrino?
«Affatto: nessuna restrizione alimentare. La mia dieta è decisamente varia: frutta, verdura, cereali, pesce e carne; solo così si possono assimilare tutti i principi nutritivi, senza ricorrere agli integratori alimentari. Credo che gli insegnamenti più preziosi siano quelli che derivano dalla saggezza ancestrale, quindi ho un solo dogma: “Da tavola bisogna sempre alzarsi con un po’ di fame”; lo dicevano i miei nonni. Non mi faccio mancare nemmeno il salame: sono molto goloso di quello bergamasco».
Umberto Veronesi gelava chiunque lo definisse un genio. Ribatteva: “La prima volta che, neolaureato, varcai la porta dell’Istituto europeo dei Tumori, contavo di riuscire a trovare una cura per il cancro, avendo davanti tutta la vita. Ho fallito”. Qual è il suo maggior rammarico professionale?
«Più che “quale”, direi “quali”: nulla di ciò che ci eravamo prefissati è stato ottenuto! La medicina che coltiviamo con la ricerca non ha debellato le malattie: c’è poco di cui vantarsi. Anzi, una cosa di cui sono orgoglioso, c’è: i tanti giovani che abbiamo in istituto. Tra Milano e Bergamo si stanno formando circa 160 borsisti: speriamo che almeno loro riescano in ciò in cui noi abbiamo fallito».
So che la notte fatica a prendere sonno perché la preoccupa non far quadrare i conti del Mario Negri. Come si fa a tenere a galla una no profit in un Paese che, appunto, tratta la ricerca al pari di una Cenerentola?
«Bisogna ricorrere a parecchie vie per riuscire a trovare le risorse necessarie e mantenere l’autonomia. Abbiamo una serie di regole non scritte: mai dipendere dalla finanza, dalla politica, dalle ideologie o dall’industria. Cerchiamo di non ricevere più del 10% del nostro bilancio da una sola fonte, per non creare un legame. Non è facile, considerato che non prendiamo brevetti e pubblichiamo tutto. Attualmente circa il 40% delle nostre entrate deriva da situazioni competitive - quindi bandi di concorso nazionali e internazionali -, quasi un 20% sono rappresentati dai rapporti con industrie con cui condividiamo un interesse scientifico; un 25% deriva da fondazioni. Il resto da privati o lasciti testamentari».
La prima cosa che farebbe se diventasse ministro della Salute?
«No, è un’ipotesi remota: mi caccerebbero dopo un paio di giorni. Non ho mai accettato incarichi di quel tipo, perché ho sempre saputo che non sarei durato a lungo».
Mettiamola così: se potesse esprimere un desiderio?
«Vorrei che lo Stato promuovesse una politica in cui i privati fossero più incentivati a sostenere lo sviluppo delle attività pubbliche».
Scrive Roberto Gervaso: “L’Italia gli deve molto e Stoccolma gli dovrebbe qualcosa”.
«Lui è mio amico, è di parte (il professore, quintessenza dell’umiltà dei grandi, abbassa lo sguardo; seppur visibilmente in imbarazzo, continua a parlare, giocando nervosamente con le bacchette degli occhiali, ndr). Non ho mai nemmeno lontanamente pensato al Nobel: ci sono un sacco di ricercatori che hanno fatto cose ben più importanti delle mie. Non rientra mie ambizioni: avrei dovuto costruire la mia vita in tutt’altro modo».
Mi conceda una nota di leggerezza: prima di Marchionne, Jobs o Zuckerberg, lei - col suo dolcevita bianco trasformato in una sorta di uniforme - ha assurto il ruolo di icona estetica. Perché non se ne separa mai?
«Le confesso che è stata un’idea di mia moglie: devo girare parecchio e le camicie, in valigia, si stropicciano. Il dolcevita sta bene con gli abiti, non richiede la cravatta ed è più pratico. In estate lo uso di cotone, in inverno in lana. Mi sorprende che la gente sia così interessata a questo argomento: c’è chi ha persino ipotizzato che avessi qualche deformità da nascondere al collo, o che lo indossassi per una sorta di un fioretto. Certo, è capitato che in alcuni posti mi rimbalzassero, perché non avevo la camicia: è successo in un ristorante chic di Londra. Pazienza: sono andato a cena da un’altra parte. In Senato rischio ogni volta di rimanere fuori: ma poi incrocio qualcuno che mi conosce e mi fa passare. Le racconto una cosa buffa che mi è accaduta di recente: una signora su di età, simpatizzante comunista, alla fine della seduta mi si avvicina e mi dice: “Professore, non sa come sono contenta che l’abbiano fatta entrare: fino ad oggi l’unico che poteva varcare la porta del Senato senza giacca e cravatta era Marchionne!». Rossella Martinelli


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