Imprese
La parola all’allievo prediletto: Antonio Ghilardi, del ristorante «Papillon»
«Come ho mangiato da Cracco? Non ricordo».
«Berton? Non so dire: quando lavorava da me, faceva i piatti».
«Canzian? Mi ha piantato in asso».
Nel novembre del 2015, Marchesi rilasciò a “Il Giornale” un’intervista poi ripresa da tutta la stampa nazionale: in quelle righe, infatti, criticava una certa spettacolarizzazione della cucina, così come i celebri chef che si erano formati nei suoi ristoranti. Parole dure per tutti. O quasi: il solo ad essere salvato - anzi, di più, elogiato - fu un bergamasco, che in pieno stile orobico alle luci della ribalta ha preferito il linguaggio del “fare”, trasposto nei suoi piatti.
«Ecco, poi c’è Antonio Ghilardi, è bravissimo, molto intelligente: lavora a Bergamo, a Torre Boldone», enunciò il Divin Marchesi, incalzato dalla giornalista.
«Ricordo bene quel giorno», esordisce Ghilardi, senza cedere ai trionfalismi. Sobrietà ed eleganza sono, del resto, la cifra stilistica che lui e la moglie, Elisabetta Bucciol, hanno conferito al loro “Papillon”: qualcuno lo definisce la “terrazza di Bergamo” - poiché sorge sulla sommità di via Gaito - e regala una vista mozzafiato ai numerosi frequentatori.
«A parlarmi di quell’articolo fu un cliente affezionato. Mi lusingò, ovvio: così come i tanti attestati di stima che mi riservò il maestro nel corso della nostra lunga collaborazione, trasformatasi in amicizia».
Lo chef mostra orgoglioso la sua “biblioteca marchesiana”: ogni volume è corredato da dediche e autografi che testimoniano il crescendo del rapporto tra i due. Dal «Con un augurio di cuore per la tua carriera di cuoco», del 1984, a corredo de “La mia nuova grande cucina” fino al «Per Antonio: amico, più che cuoco! Gualtiero» a calce di “Gualtiero Marchesi, opere” del 2016.
Un sodalizio che non vacillò nemmeno dopo il secondo addio, nel 1990 (aveva già lavorato per lui dall’83 all’85, per poi passare a “Le Cirque” di New York e a Parigi, da Lucas Carton). «Gli dissi: le vorrò sempre bene, signor Marchesi, ma ho bisogno di staccarmi, a costo di sbagliare da solo. Da persona intelligente, capì: lo vivevo alla stregua di una figura paterna».
Marchesi frequentava il Papillon?
«Sì, capitava venisse a trovarmi. Amava l’anatra. L’ultima volta che passò, gli preparai una sua creazione di cui si era completamente scordato: l’insalata di code di scampi con cetrioli».
Quale dei suoi mitologici piatti ricorda come più complesso?
«La “Costoletta 2000”: all’inizio, fu un vero incubo. Si trattava di una cotoletta alla milanese presentata in nove cubetti, impanati su ognuna delle sei facce. Ciascun boccone doveva essere perfettamente dorato e croccante. Tecnicamente ai limiti del possibile. Ho avuto la fortuna di lavorare per lui a 19 anni, quando il cervello è ancora una spugna e assorbe tutto: stare alla sua scuola significava imparare determinati stili e tecniche vent’anni in anticipo rispetto agli altri. Era un uomo illuminato, un precursore: il primo ad andare in tv e a sdoganare i surgelati, firmando persino una linea completa per la “Surgela”».
Nonché burbero.
«No. Semmai, senza fronzoli. Diretto: dotato di una lucidità di analisi che, a volte, si traduceva in quella schiettezza che può ferire».
In cosa si somiglia la vostra cucina?
«Nel rigore e nel rispetto per la materia prima, per le cotture e per i clienti. Eseguo con la stessa, religiosa, devozione le portate più ricercate, così come il menù bambini: una patatina fritta non deve essere troppo cotta, troppo salata, o troppo unta».
In cosa, invece, vi discostate?
«Nei prezzi! Conservo nel mio archivio alcune carte dei primi anni Ottanta, quando era un due stelle Michelin: menù da 75mila fino ai 125mila Lire».
È rimasto in contatto con i suoi celebri ex colleghi?
«Sì. Enrico (Crippa, ndr) era già un cavallo di razza a 20 anni: un fuoriclasse. Di Davide (Oldani) ammiro la predisposizione fuori dal comune nel cogliere ciò che serve a livello commerciale. Carlo (Cracco) ha dimostrato di saper sfruttare il canale della televisione e la sua prestanza fisica: è stato la persona giusta, al momento giusto».
Rimpianti?
«Di occasioni ne ho avute tante. Quando il maggiore dei miei figli aveva un anno, Lidia Bastianich - la madre di Joe - venne a mangiare al Papillon; a fine serata mi propose di andare negli Stati Uniti per seguire i suoi ristoranti: erano alle prese con l’ampiamento del brand. In seguito, mi offrirono di diventare personal chef di Valentino. Declinai in entrambi le occasioni, perché accettare avrebbe comportato disgregare ciò che avevo creato e che, nel frattempo, rappresentava la priorità: la mia attività e, soprattutto, la mia famiglia».
Il Papillon, appunto: sorprende che uno chef col suo curriculum non sia stato insignito di nessuna stella.
«L’attività banchettistica non è vista di buon occhio in certi ambienti, a meno che non sia nettamente divisa dal ristorante: ma è necessaria da un punto di vista commerciale».
Si sussurra che voglia aprire delle camere, per trasformare il Papillon in una sorta di Relais & Châteaux.
«Mi piacerebbe: gli spazi ci sono, ma ora la questione è capire se i miei figli se la sentano di portare avanti un progetto simile, considerato che ho 55 anni. Lo step iniziale potrebbe contemplare una sorta di formula bed and breakfast, per osservare la risposta del mercato. Vorrei implementare anche la parte didattica. E dedicarmi alla scrittura: sono giornalista pubblicista. Ma, ahimè, il tempo è poco: nei giorni di chiusura mi dedico alla consulenza per il Grand Hotel Tremezzo, sul lago di Como. L’ultimo tassello della mia collaborazione con Gualtiero Marchesi».