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L'INTERVISTA

Trussardi: «Moda? Non solo: noi siamo stile di vita»

luglio 2020

Nascere per produrre un bene di necessità, in questo caso guanti, e ritrovarsi 110 anni dopo ambasciatori di cultura, stile e savoir vivre italico nel mondo: questa, in sintesi, la parabola del marchio Trussardi. Una storia che non parla più soltanto di borse e guanti, ma di un vero e proprio stile di vita, raffinato quanto elegante e mai ostentato.
Oggi, come presidente della casa di moda, c’è Tomaso, 37 anni, figlio di Nicola, giovane ma dotato di grande strategia e visione d’insieme del proprio settore. «Sono entrato in azienda per così dire nel momento peggiore», racconta. «La mia famiglia manteneva da circa quindici anni una gestione molto prudente e tradizionalista, legata a una logica di prodotto e prezzo e non al marchio, che sul breve periodo ha pagato, ma sulla lunga distanza si è rivelata di scarso respiro. Quando sono diventato amministratore delegato, in seguito alla crisi del 2008, ho puntato subito a una strategia che compattasse il marchio, invece che segmentarlo in diverse linee per prodotti e fasce di prezzo, una strategia “one brand, one label”».
Lei si muove in un contesto di grandi nomi, Trussardi, Armani, D&G… La disturba il fatto che nel mondo della moda e del luxury sempre più trovino visibilità influencer e celebrità che lanciano le proprie linee? E, a tal proposito, ha ancora senso parlare di una moda elitaria contrapposta a quella accessibile al pubblico?
Da sempre i personaggi famosi che diventano essi stessi un brand si lanciano nella produzione di proprie linee, ma questo non ha nulla a che vedere con il fatto di costruire un brand solido e duraturo. Si tratta semplicemente di operazioni di marketing. Certo può dare fastidio, ma il cliente sa fare una distinzione tra un prodotto figlio del momento, e un brand storico che trasmette anche dei valori. Potrei fare l’esempio di una grande catena del low cost che si è recentemente trovata in grande difficoltà in quanto, essendosi concentrata sulle collaborazioni prestigiose, i clienti finivano per acquistare queste capsule collections e non più il prodotto “normale”. Si tratta di decidere se si vuole generare traffico, o se si vuole qualcosa che duri nel tempo. La moda cambia rapidamente come il gusto della gente. Un brand è in grado di prendere i propri codici e ribaltarli per reinventarsi. La moda è arte, e l’arte è contingenza, quindi si adatta ai codici del momento. Va bene sfruttare la forza comunicativa dell’influencer del momento, ma senza lasciarsi prendere troppo la mano.
Qual è l’idea di bellezza e valori che Trussardi porta al pubblico?
Mio padre diceva che la sobrietà induce alla seduzione e viceversa. E anche: io sono stanco del prêt-à-porter, voglio il prêt-à-vivre. Questo è Trussardi, un marchio che vende lifestyle e non prodotti. Ma lo fa con heritage e craftsmanship, due valori a cui non possiamo non rifarci avendo quasi 110 anni di storia.
Parliamo della crisi Coronavirus. Come l’ha vissuta da imprenditore, da padre di famiglia, da bergamasco, e attraverso quali iniziative si è attivato per sostenere chi è in difficoltà?
Bergamo è la mia città, non posso che essere colpito personalmente. Insieme al CESVI e al sindaco Gori abbiamo raccolto circa un milione e mezzo attraverso l’iniziativa ConBergamo, più nostre donazioni personali, più l’intero incasso di questi mesi del sito di e-commerce Trussardi devoluto al CESVI. Tutto questo ha avuto riscontro anche all’estero, tant’è vero che alcuni nostri clienti, già propensi a cancellare gli ordini effettuati, alla fine hanno deciso di mantenerli proprio perché hanno visto che l’azienda era vicina alla città in una situazione drammatica. Questo intendo quando parlo di azienda che trasmetta dei valori. La situazione è particolarmente difficile perché, se dopo la fine della guerra arriva la ricostruzione, qui invece abbiamo solo incertezza. Le abitudini della gente sono state modificate radicalmente dalla paura, si tendono a preferire gli spazi aperti se si esce, e si esce comunque poco. In queste condizioni, non ha molto senso vestirsi per esprimere se stessi, la propria personalità, mostrare il proprio biglietto da visita. E quindi si compra poco, anche online.
Come cambia il vostro settore, per quanto riguarda i viaggi, gli eventi, e anche il commercio al dettaglio? L’acquisto di un capo è comunque emotivo, e l’acquisto online non sempre offre questo tipo di esperienza.
Questo dipende da molti fattori. Naturalmente, acquistare un accessorio rimane molto meno complicato che acquistare un capo di abbigliamento. Non so ovviamente prevedere a quali grandi cambiamenti andremo incontro, ma posso dire che stiamo lavorando sul brand in maniera importante, che paga sempre. Sinceramente, credo che finiremo per tornare lentamente alla normalità, ma nel frattempo dobbiamo lavorare per creare desiderio sul nostro prodotto. Sembra assurdo dirlo, ma alla fine il segreto della moda è l’omologazione. Ci si omologa per distinguersi. Se c’è desiderio del nostro accessorio, poco importa che lo si venda online o in negozio. Il 60-70% delle vendite che avvengono in un punto Trussardi originano comunque online. La vendita online non ha sostituito quella tradizionale ma vi si è sommata. Questo è il concetto di omnicanalità: non mi interessa come vendo il prodotto, ma come raggiungo il cliente.
E per quanto riguarda il messaggio? Il mondo della moda racconta per definizione di velocità, performance, successo, bellezza estrema. Si modificherà dopo questa esperienza?
Per noi la bellezza non deve essere estremizzata, ma in ultima analisi arriva anche questo, una sorta di goliardizzazione del mondo della moda. In realtà dietro la moda c’è lavoro, artigianalità, filiera, manualità, e ben poco di quell’apparenza che spesso arriva al pubblico. Sicuramente ci si interroga su quelli che sono i valori che si vogliono trasmettere, che devono essere più radicati, e in questo marchi come il nostro hanno la responsabilità di diffondere cultura. Ma d’altronde questo è quello che, come Trussardi, abbiamo sempre fatto. Credo sinceramente che il mercato finirà per ristabilizzarsi e cambierà poco. Personalmente, sarei ben felice che si tornasse a un modello in cui i capi rimangono belli e vestibili anche dopo qualche stagione, ma questo non è ovviamente sostenibile.
Che interventi si aspetta dalle istituzioni per sostenere le aziende e farle ripartire?
Alle aziende occorre liquidità. Esiste una visione miope per cui non si guarda la capacità di un’azienda di creare valore nel tempo, e le banche come stakeholders non si assumono il rischio, alimentando un’economia malata in cui la filiera viene penalizzata. Il made in Italy è un valore, che si tratti di moda o di tecnologia, e questi mondi che ci sembrano irraggiungibili in realtà sono fatti di gente semplice che lavora, a Bergamo come in Veneto come a Napoli. E questi lavoratori non sono tutelati, in quanto per le banche rientrano in una categoria di PMI che non hanno una struttura finanziaria forte come la nostra. Lo Stato dovrebbe frenare questa dispersione di valore permanente, prima di tutto. Un marchio si può sempre rilanciare, ma il know-how, e quei valori che si vanno a perdere, non si recuperano. Al massimo vengono svenduti.
Il suo messaggio per la città?
Non ho molto da dire ai bergamaschi, che sono considerati ovunque resilienti, perbene, affidabili. Quello che voglio dire al mondo è che Bergamo è stata conosciuta a livello internazionale per la crisi Coronavirus, ora è tempo di conoscerla per quella che è: per le sue bellezze, le sue eccellenze, il suo cibo, la sua cultura. Questa crisi deve trasformarsi in un’opportunità.

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