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Economia

CAOS AFGHANO

È CROLLATO TUTTO

settembre 2021

Il tono è quello amareggiato di chi, dall’interno, sa di averci messo tutto l’impegno e la professionalità necessari, e di aver raggiunto anche dei risultati. Ma contemporaneamente quello disincantato, diffuso nell’opinione pubblica mondiale, di chi a distanza di tempo ha visto sfumare tutto in pochi giorni.
Il Generale dei Carabinieri Sebastiano Comitini, 63 anni, da qualche mese in congedo a Livorno, ha lasciato l’Afghanistan dieci anni fa. Vi era arrivato nove anni dopo l’invasione americana seguita al crollo delle Torri Gemelle: era l’ottobre 2010, dunque esattamente la parte centrale della missione che portò l’occidente nel paese controllato dai talebani, coloro i quali avevano avuto un ruolo attivo nel fornire protezione ai terroristi di Al Qaeda responsabili degli attacchi di New York dell’11 settembre e, tra di loro, Osama Bin Laden. «Una missione difficile - esordisce Comitini -, che aveva un problema di fondo mai risolto: fino a quel momento l’occidente era abituato a missioni costituite da una fase di implementazione, in cui arrivano i militari e ristabiliscono l’ordine, seguita da una di stabilizzazione, dove si mettono in piedi le forze di sicurezza e le istituzioni, e infine da un’ultima fase chiamata di “Nation Building”, dove si costruiscono le diverse infrastrutture del paese. Il problema in Afghanistan era che eravamo costretti a portare avanti le tre fasi in contemporanea. I talebani nelle loro diverse componenti erano impegnati in una guerriglia continua contro la coalizione internazionale, che solo a tratti sospendevano. Se non erano loro a causare problemi alla sicurezza erano i membri di Al-Qaeda, oppure i gruppi armati di quelli che vengono chiamati “I signori della guerra”. È difficile arrivare ad una situazione di stabilità se mentre si addestrano le forze di sicurezza locali si è impegnati nella controguerriglia, e nel frattempo si devono costruire scuole o altre strutture».
Comitini, oggi Generale di Divisione della Riserva, è stato in Afghanistan fino al settembre 2011. Alle spalle e in seguito una lunga carriera nell’Arma, dal comando del Reggimento Carabinieri Paracadutisti Tuscania a quello della II Brigata Mobile, passando dal Gruppo intervento Speciale e dai Comandi territoriali di Compagnia e Provinciale. Tante le missioni all’estero: in Somalia, in Bosnia, in Kosovo, in Iraq a Nassiriya, in Palestina ad Hebron. Infine, anche un’esperienza come professore e analista al centro studi “Marshall European Center For Security Studies” di Garmisch, in Germania. In Afghanistan è stato il comandante del “Combined Training Advisory Group-Police”, ovvero il responsabile dell’addestramento, gestito dalla NATO, delle forze di polizia afghana dell’intero paese (due programmi a parte erano dedicati all’addestramento dell’esercito e dell’aviazione afghani, un’organizzazione che sarebbe poi mutata negli anni seguenti). «L’obiettivo fissato - spiega Comitini - era quello di raggiungere una forza di polizia addestrata di 157 mila unità entro il 2014. Poi si sarebbe dovuto verificare il passaggio agli afghani della gestione della sicurezza. Incrementammo per questo il numero dei centri di addestramento che arrivarono a 36, distribuiti su tutto il paese, con una capienza complessiva di 55 mila allievi. Uno sforzo, anche economico, grandissimo da parte degli Stati Uniti e di tutta la coalizione».
«Tuttavia - continua Comitini - la situazione era quella ben racchiusa in una metafora che ripeteva spesso l’allora comandante delle forze americane in Afghanistan, il Generale Petraeus: “stiamo costruendo un aereo - diceva Petraeus - mentre sta volando ed è pure brutto tempo”. Mentre si addestrava si combatteva, mentre si combatteva si cercava di costruire. E questo rallentava tutto. Eppure ci sono stati dei buoni risultati sul fronte della formazione - evidenzia il Generale - Quando ho lasciato il paese c’erano 120 mila uomini addestrati, la fase di transizione verso la gestione afghana era cominciata, eravamo al punto che l’addestramento era già portato avanti da istruttori afghani. Eravamo insomma passati dal sedile di guida a quello del passeggero: fornivamo suggerimenti e coordinavamo il supporto logistico». Certo Comitini ha ben presenti alcune delle difficoltà costitutive dello scenario afghano sottolineate nelle ultime settimane da tutti gli analisti. «L’Afghanistan è un paese immenso - spiega -, frammentato e impraticabile anche dal punto di vista geografico. Sono numerosissime le province e i distretti, è un mosaico di etnie e lingue che dividono in modo netto la popolazione. Gli afghani fanno fatica a percepire il loro come un unico paese: a contare è la divisione etnica, sono fortemente condizionati dall’appartenenza al proprio clan. Anche per questo, diversamente da quanto accade in uno stato occidentale, nessuno voleva andare a prestare servizio in una zona del paese che non fosse la propria, e che magari era molto più pericolosa. D’altronde le forze di polizia, sparse in piccoli gruppi nei paesi o ai check point, sono per natura più esposte al pericolo rispetto all’esercito. Tra le difficoltà ricordo che ci eravamo trovati di fronte ad un 86 per centro degli allievi analfabeta: non puoi fare il poliziotto se non sai leggere nemmeno una targa, per cui avevamo attivato anche corsi di alfabetizzazione all’interno del percorso di addestramento».
Dieci anni dopo l’intero apparato statale, compreso l’esercito e la polizia, si è disgregato in pochi giorni di fronte all’avanzata talebana, che ha ripreso il controllo completo del paese. “Nonostante tutte le criticità mi sento di dire che la coalizione internazionale aveva fatto un buon lavoro - commenta il Generale Comitini - certo, i fatti accaduti tra l’agosto e il settembre 2021 raccontano di una fine drammatica della missione. Allora quello che vedevamo noi era che le forze di polizia stavano andando avanti bene da sole, avevamo costruito qualcosa, una risposta al nostro lavoro c’era stata. Ma è chiaro che se nel momento del bisogno questi uomini non trovano nessuno sopra di loro che dà ordini, se l’intera struttura statale nei suoi vertici militari e politici sparisce tutto d’un tratto, l’intero impianto crolla. Probabilmente, come sta emergendo, a causa soprattutto della corruzione dilagante della leadership del paese, ma anche come effetto chiaro e non certo nascosto della scelta, nata durante la presidenza Trump, di trattare il ritiro degli americani - che tutti i presidenti USA si prefiggevano - direttamente con i talebani, escludendo il governo afghano». «Resta l’amarezza - conclude Comitini - tuttavia conservo una speranza, perché in questi due decenni è cresciuta una generazione che ha una mentalità diversa da quella delle generazioni precedenti e che non tornerà indietro rinunciando a molte delle conquiste fatte. Di certo l’Afghanistan di oggi non è più quello di vent’anni fa, e questo mi fa sperare che non tutto è andato perduto». Daniele Cavalli


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