Economia
«Se l'Europa vuole crescere deve investire nel capitale umano»
Impeccabile, con un sorriso accomodante e sornione, l’ex premier Giuseppe Conte, nel corso della sua visita in val Chiavenna alle trafilerie Alluminio Alexia, ha rilasciato un’intervista a 360 gradi sul panorama politico-economico nazionale e internazionale, alla luce dei fatti di cronaca che in questo periodo stanno mettendo a dura prova gli equilibri geopolitici di tutto il mondo.
Oggi ha visitato una realtà virtuosa come quella di Alexia, che rappresenta un'eccellenza, ma che opera in un ambito - quello della piccola e media impresa - che oggi, in Italia, si trova in grossa difficoltà. Qual è il suo pensiero in merito alla situazione attuale e alle prospettive future?
«Questa visita si inserisce in una premura - mia, a livello personale, e di tutto il Movimento 5 Stelle - per la situazione, in generale, del nostro sistema produttivo. Parliamo di una situazione fortemente deteriorata: abbiamo una manifattura che sta attraversando un momento di forte difficoltà. Avevo, però, il desiderio di recarmi in una realtà di eccellenza come quella di Agnelli. Quella che ho potuto visitare è una realtà aziendale consolidata nel tempo, che ha un importante asset nel settore della manifattura e, in particolare, dell'alluminio. Quello della manifattura è un ambito in cui si incontrano spesso grosse criticità, per risultare competitivi in una dimensione transnazionale. Ci sono fattori evidenti che determinano queste difficoltà. Il costo dell'energia cresce maggiormente rispetto ai concorrenti all’estero e arriva ad essere tre volte tanto; il costo del denaro è già alto e, infine, il nostro costo del lavoro rimane, oggettivamente, tra i più alti d'Europa. Chi riesce comunque a rimanere competitivo compie un vero e proprio miracolo. Purtroppo, stiamo assistendo a un tracollo della produzione industriale».
Quale sarebbe, dal suo punto di vista, la cosa più urgente da fare
«Per prima cosa è assolutamente urgente togliere di mezzo il costo assicurativo per rischi catastrofali. Sono costi aggiuntivi produttivi che intervengono ad aggravare una situazione già pesante, tenendo conto che la transizione 5.0 non è assolutamente spendibile con tutto il peso di certificazioni e vincoli burocratici che il governo ha voluto introdurre».
Parlando di Europa, lei si è schierato in modo netto contro il piano di riarmo proposto dalla Von der Leyen.
«Sì, e ribadisco con forza che non è certo una soluzione per il nostro Paese offrire un piano di riarmo che andrà ad avvantaggiare i nostri più agguerriti competitor, a partire dalla Germania, che ha programmato già da qualche tempo una riconversione dell'intero sistema industriale in questa direzione. Ritengo, invece, che una sana riconversione del sistema industriale vada studiata pensando a scenari futuri più strategici come, ad esempio, l'impatto della robotica e dell'intelligenza artificiale».
Non crede che l’Italia possa comunque trarre beneficio dal piano di riarmo?
«Per niente. L'Italia non si avvantaggerà in alcun modo. Qualcuno sta illudendo i cittadini italiani che potremo beneficiare di questo piano. L'effetto traino sarà di modesta entità per quanto riguarda il nostro sistema: al massimo, potremo riconvertire qualche piccola realtà, ma l'Italia - a causa del suo alto indebitamento - non potrà mai partecipare a un progetto che comporterebbe 800 miliardi di investimenti militari. Ripeto: se vogliamo crescere e diventare competitivi, l'Europa deve investire nel capitale umano e nell'innovazione tecnologica, nelle filiere produttive - per proteggerle - e, soprattutto, deve investire negli asset importanti per i cittadini. Quali? Sanità, scuole, istruzione, asili nido: sono quelli a farci crescere».
Un altro dei problemi di stretta attualità è quello riguardante i dazi che Trump ha prima annunciato e poi ritardato, creando una grande agitazione nei mercati. Lei ha conosciuto Trump nel corso del suo mandato di governo: come pensa che evolverà questa situazione?
«Il problema dei dazi l'ho vissuto anch'io. È un vecchio pallino di Trump quello di voler riequilibrare la bilancia commerciale, per favorire le industrie americane. Il modo migliore per rispondere alla minaccia dei dazi è far capire agli Stati Uniti che non ci sarà alcun vantaggio da questa scelta. Se gli scenari non cambieranno, dovremo introdurre dei contro dazi che svantaggeranno l'industria americana e, soprattutto, per salvaguardare il nostro sistema produttivo, dobbiamo pensare a diversificare i mercati; quindi, iniziando a guardare a Cina e India, in una logica di sistema: cercando di mantenere ottimi rapporti con gli Stati Uniti, sperando che in questo modo possano comprendere che quella che hanno deciso di percorrere è una strada che svantaggerà loro per primi».
L'Europa, a suo avviso, ha la capacità e la forza di poter dialogare in modo coeso con gli Stati Uniti?
«La politica europea, ad oggi, ha sempre avuto un deficit da questo punto di vista; ma, sul piano dei dazi, l'Unione Europea è riuscita a muoversi abbastanza all'unisono quando si è trattato di tutelare il mercato comune. Confido che, anche in questo passaggio, possa rimanere unita».
Se permette, ora cambio completamente argomento.
«Non si preoccupi, sono preparato (sorride - ndr)».
Sono passati ormai 5 anni da quando il Covid è comparso e ha provocato tutto ciò che sappiamo. A Bergamo, il ricordo di quel periodo è ancora oggi molto presente. Lei personalmente, non nel ruolo di Presidente del Consiglio, ma a livello umano, come ha vissuto quei momenti?
«Sicuramente, con grande angoscia, perché vedere il numero dei morti che aumentava di giorno in giorno, in modo incontrollabile, e scoprirmi alla guida di un Paese che non aveva strumenti di protezione, è stata veramente una sensazione terribile. In quel momento, però non c'era spazio per lo scoramento: era fondamentale trovare delle soluzioni efficaci e in modo rapido. A questa angoscia si è accompagnata fin da subito la moltiplicazione delle energie, con l’obiettivo di stimolare l'intero sistema in tutte le sue componenti, affinché ci fosse una reazione unitaria: l'unica che ci potesse salvare».
Ripensando a quanto accadde cinque anni fa, oggi che sentimento prevale?
«Oggi prevale la sensazione che l’intero Paese non abbia tratto alcuna lezione da quell'esperienza. Da una parte c’è la politica, che non vuole dare importanza agli investimenti nella sanità; una politica che sembra voler aspettare delle nuove tragedie, per poter reagire con forza e dignità. Dall’altra, ci sono le reazioni di quei cittadini che vogliono rimuovere una situazione vissuta in maniera angosciante e dolorosa. È una reazione più comprensibile, ma comunque sbagliata».
Ne siamo usciti migliori?
«È complicato dirlo. Io, francamente, mi sono sentito orgoglioso di essere alla guida di un Paese i cui cittadini sono stati esempio per altre comunità nazionali».
Lorenzo Pagnoni