PUBBLICITA'

Economia

L'ANALISI

La ripresa c’è: è merito delle PMI e del cuore degli imprenditori

novembre 2017

Finalmente dopo 8 anni di segnali negativi e di sfiducia possiamo dire che la ripresa c’è. Dato  certificato anche dall’ufficio studi di Confimi Industria attraverso la sua indagine congiunturale e dall’ISTAT. Si vede qualcosa a lungo termine. Il rilancio si percepisce dalle nuove commesse e dal fatto che il 33% delle imprese conferma la crescita di produzione e di fatturato entro l’anno. Altro dato significativo è offerto dalla drastica riduzione del ricorso agli ammortizzatori sociali che rimane per il 5,3% delle imprese. Diventa ora necessario approfittarne per rendere la ripresa strutturale.
Di chi è il merito di questo dato positivo?
Dollaro debole, incentivi impresa 4.0 e parte del jobs act hanno accompagnato le imprese aiutandole ad uscire dalle sabbie mobili, ma il grandissimo merito è dei 4,3 milioni di PMI (da 1 a 249 dipendenti) che esistono in Italia e che danno lavoro a 16,5 milioni di lavoratori e che producono il 73,8% del PIL. Ed è merito del grande cuore degli imprenditori che in questo ultimo decennio hanno avuto una capacità incredibile di stare in piedi e di sorreggere con la loro attività il territorio in cui vivono.
Questo nonostante la chiusura del credito operata da parte delle banche a causa delle direttive europee, in base alle quali non si presta denaro se non a chi è già “strasolido” e nonostante continui cambi normativi e pesantissimi carichi in termini di fiscalità sul lavoro  e sul costo dell’energia.
Questo colpo di reni  mi fa piacere perché se soltanto un Governo, di qualsiasi colore, riuscisse a comprende che l’Italia è un po’ diversa dalle altre nazioni dato che è un Paese che dispone di milioni di “motorini” e se riuscisse ad afferrare il concetto che questo è un patrimonio nostro, che va valorizzato e aiutato dopo anni di crisi, credo che con questi  “motorini” l’Italia partirebbe davvero senza esitazioni.
Finalmente si darebbe un giusto riconoscimento a queste PMI, prevalentemente di carattere familiare,  che non chiedono aiuti allo Stato per andare avanti, fatte di realtà variegate, spesso bistrattate dentro lo “stereotipo” del tipo “devono crescere per competere sui mercati”, “bisogna fare rete e mettersi insieme per costituire grosse realtà”. Ricordo che non è necessario essere grandi per conquistare i mercati:  bisogna essere bravi e competenti,  che è diverso da essere grandi.
Queste PMI sono fatte da imprenditori che conoscono il territorio dove lavorano, che cercano di non lasciare povertà dove operano. Bisogna una volta per tutte prendere coscienza che l’Italia è fatta da questo tessuto imprenditoriale, non esistono ora altri modelli vincenti. C’è stato - è vero - un tempo in cui le grandi aziende straniere calavano in massa nel nostro Paese. E’ stato un tempo di grande vitalità, il tempo delle passioni intense dove tutto pareva possibile e le nuove realtà produttive straniere innervavano di energia, risorse ed entusiasmo interi settori industriali: dal tessile alla chimica alla meccanica portando di riflesso lavoro, benessere e prosperità ad intere comunità, paesi e famiglie.
Per molte generazioni intorno alle grandi imprese multinazionali ed alla loro immensa capacità di offrire lavoro si è sviluppato un indotto pulviscolare di aziende che nel tempo si è impreziosito di creatività, competenze, capacità di fare e fare bene, e che oggi costituisce un patrimonio dal valore inestimabile. Era il tempo di un nuovo rinascimento e di un sogno che pareva non dovesse finire mai. Ma ora quel tempo è passato e ha lasciato gravi lacerazioni. Piano piano, impercettibilmente senza che ce ne accorgessimo come per certi mali silenti, qualcosa si è rotto, è cambiato. Il sogno si è rattrappito, il rinascimento è rifluito in un nuovo Medioevo e le passioni intense hanno lasciato il posto alle passioni spente, al disincanto, alla presa di distanza, all’aridità spacciata per razionalità, alla mediocrità scambiata per efficienza. Un tempo il ricorso ai licenziamenti di massa era considerato dall’imprenditore l’ultima spiaggia, l’ammissione esplicita di un fallimento che era prima personale e poi imprenditoriale.
Oggi è il segno distintivo di un management considerato “forte”, è l’alfa e molto spesso l’omega di aziende “snelle e spietate”, incanalate sui binari della funzionalità stretta, del rapporto costi-benefici, del profitto a tutti i costi. E poco importa se i costi, a pagarli, saranno quelle persone che insieme hanno condiviso una storia, un tratto di vita, il sogno di appartenere a qualcosa di più grande. Poco importa. E’ solo il sacrificio, il prezzo inevitabile da pagare all’altare del mercato e della globalizzazione. Tutto questo non dovrebbe accadere ed invece è accaduto. Non dovrebbe accadere che aziende sane chiudano per obbedire a logiche che considerano le persone un “costo” e le macchine un “investimento”; invece è accaduto. Nelle nostre PMI non c’è questa logica. A questo modo di fare impresa non dobbiamo arrenderci e, peggio, non dobbiamo abituarci. Impresa deve continuare a significare ciò che il suo stesso nome racchiude: quei palpiti di coraggio, lealtà e passione che rendono il profitto un mezzo e mai un fine, perché il nostro vivere non sta nel bilancio costi-benefici; questo  ci ha permesso di stare a galla negli ultimi tremendi anni. Stiamo uscendo da una situazione economica difficile. Ma la linea di confine fra lo stare male e lo stare bene è ancora troppo sottile. La linea per l’imprenditore la traccia il cuore, l’ardimento, il senso di trascendenza che c’è. Sta nella capacità di raccontare alle nuove generazioni nuove storie, nuovi mondi al quale desidereranno appartenere, nuove strade che riscaldino il cuore. E’ questo il momento di tenere duro, di mantenere la posizione, di alzare la voce anche se fuori dal coro. E’ qui, è ora che possiamo sperare di cambiare la partita. E se poi infine, malgrado tutto, accadrà che questo strano mondo ci inchiodi in un angolo chiedendoci la resa e la testa, abbasseremo le armi ma non lo sguardo. Paolo Agnelli


Copyright © 2017, Bergamo Economia
PUBBLICITA'