Economia
Ripartiti con il freno tirato
Pronti ai blocchi di partenza da più di un anno, dopo aver atteso il consueto ready, steady, go e aver ritrovato la giusta adrenalina, ecco avvertire l’inaspettata zavorra.
La ripartenza del sistema produttivo è di fatto in corso, è iniziata qualche mese fa. Ma certamente non senza sopraggiunte difficoltà. Potremmo azzardare e chiamarla una ripartenza con freno a mano? Azzardiamo. Il primo ostacolo - ancora presente - è rappresentato dal boom di richiesta di componentistica elettronica e di materie prime che proprio perché disponibili in quantità limitata e contesi dalle numerose aziende hanno visto una vera e propria impennata dei prezzi.
Il paradosso? Molte aziende di trasformazione - alcune anche nella nostra provincia - saranno costrette a ricorrere all’utilizzo della cassa integrazione proprio perché impossibilitate a produrre nei prossimi tre mesi nonostante siano piene di ordini.
All’acquisto proibitivo di metalli, polimeri, legno e carta si aggiungono i costi della logistica, non tanto per il trasporto su gomma quanto per raggiungere i mercati oltre oceano.
Una ripresa che anche sul fronte occupazione lascia ben sperare. La questione “superamento blocco dei licenziamenti” non sembra proprio interessare le piccole e medie imprese manifatturiere che nell’89% dei casi - relativamente a un’indagine conoscitiva condotta dal Centro studi di Confimi Industria - non lascerà a casa i propri addetti.
Non solo una situazione di stabilità, ma perfino di crescita: quasi un’azienda su tre, il 32%, è in cerca di nuovo personale da assumere.
Come in tutte le cose esiste un rovescio della medaglia. La ripartenza non ha riguardato uniformemente tutti i settori del manifatturiero, il tessile ad esempio sembra rimasto in difficoltà. Una difficoltà calcificata che ha origine ben prima della battuta d’arresto globale generata dalla pandemia: sono dieci anni, infatti, che in termini assoluti il comparto si conferma come il settore con il maggior numero di dipendenti in cassa integrazione.
«Ci vuole un’azione che riapra la partita. Mi ci vuole quello che ci vuole, quello che ci vuole. E un calcio e ripartire, ripartire»
Canta Gianni Morandi nella sua proposta di tormentone estivo.
C’è che chi individua questo stimolo nella ricetta “transizione digitale ed ecologica”. Peccato però ci sia un importante divario tra quello che è e quello che potrebbe, o ancora meglio, dovrebbe essere.
Scendo nel dettaglio. Sentiamo parlare ormai da anni di energia pulita, fonti rinnovabili. Ecco che quindi un’azienda investe, perché no, nel fotovoltaico per poi scoprire che la quota di energia rinnovabile che può generare non corrisponde all’utilizzo che può farne. Ogni impresa infatti può utilizzare per il proprio fabbisogno solo 500kw e l’eccedenza poi deve esser passata alla relativa società di servizio.
Si vuole ridurre la produzione di CO2 incentivando l’uso di fonti energetiche alternative ed ecosostenibili. Benissimo! In Italia dovremmo quindi sostituire le fonti di creazione di calore con bruciatori elettrici. Peccato che - nel più totale silenzio della politica - lo stato quadruplichi con tasse o accise il costo dell’elettricità portandolo a +87% rispetto alla media Ue come evidenziato dell’Eurostat.
Anche la burocrazia legata alla tutela delle regole di salvaguardia viaggia a una diversa velocità rispetto alle necessità dell’economia reale. Per ottenere l’AIA, l’autorizzazione di impatto ambientale, necessaria ad ampliare stabilimenti, integrare nuovi macchinari e simili, ci vogliono - almeno in Lombardia - tra i 6 e i 12 mesi.
Prima di parlare di digitalizzazione di processi come se fosse la risoluzione di tutti i mali, bisognerebbe avere le infrastrutture. Ci sono intere aree industriali in cui non arriva la banda larga. Lunghi tratti autostradali in cui è perfino impossibile telefonare. Quella tanto desiderata interconnessione, oggi quasi ostacolata, troverebbe poi terreno fertile.
Guardando al nostro territorio, circa le infrastrutture (esistenti e necessarie) confidiamo sulle risorse che potranno arrivare dal Recovery Plan: numerose le situazioni ormai al limite della gestibilità.
L’emergenza da covid-19 ha inoltre fatto emergere - fin dai primi mesi - i limiti della globalizzazione selvaggia. Da una parte l’invasione di prodotti in dumping che hanno impoverito, in alcuni casi distrutto, interi settori merceologici; dall’altra l’inesperienza imprenditoriale di numerosi manager che - da anni incantati dai bassi prezzi dei fornitori cinesi tanto da escludere dal loro palmares i prodotti delle aziende occidentali - oggi ha portato diverse aziende a restare ferme perché prive di semilavorati provenienti dal gigante asiatico.
Un mercato globale quasi unidirezionale: con questi paesi l’import/export è di fatto del tutto sbilanciato in un rapporto 3 a 1. Importiamo 3 ed esportiamo 1. Paolo Agnelli