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GIORNATA DELLA MEMORIA

18 marzo. Il ricordo

marzo 2021

L’immagine dei camion militari con le bare dei morti per il Covid, che la sera del 18 marzo scorso lasciavano Bergamo verso i forni crematori di tante città d’Italia, è diventata talmente icona della situazione che quella data è stata scelta come Giornata Nazionale per il ricordo delle vittime della pandemia. Vorrei però inserirla in una cornice fatta da un contesto ecclesiale e da un ricordo personale, che già ho condiviso. Nel vortice della bufera, quando gli ospedali non avevano più spazio per raccogliere i defunti, che cominciavano ad essere accatastati nelle camere mortuarie, le autorità civili e sanitarie si sono rivolte alla diocesi per cercare una soluzione che desse un’ultima carezza a quelle persone che erano state strappate dalle loro famiglie. Donne e uomini morti in solitudine, lontani dai loro cari, assistiti da medici e infermieri, spesso stremati, che in tanti casi si sono fatti anche tramite per un’ultima preziosa e desiderata benedizione del Signore. Proposi allora che la chiesa del cimitero cittadino dedicata proprio a tutti i Santi fosse quell’abbraccio che li accogliesse, come premura della comunità cristiana e della società civile. Quei defunti che non avrebbero potuto avere la vicinanza dei loro cari nemmeno per il funerale, avrebbero invece potuto sentire la compagnia dei Santi che nel grande mosaico di quella chiesa si dispongono come in cerchio, uno accanto all’altro, formando un corteo, come comunità che stringendosi attorno pregava con loro e per loro accompagnandoli per mano nel loro bussare alle porte del paradiso. In quella processione di Santi umilmente mi sono voluto inserire anche io, a nome di tutta la diocesi, di tutte le famiglie, di tutte le nostre comunità. E questo è il mio ricordo personale. Il giorno prima, da solo, in silenzio, nella penombra di quelle mura dove solo l’oro dei mosaici dell’abside delineava un pallido ma lucente orizzonte, sono passato pellegrino a benedire bara per bara, quasi come se la mia mano che segnava nell’aria il segno della croce fosse un’ultima carezza ad ognuno di quei defunti, intendendo attraverso loro raggiungere ogni anima dei tantissimi nostri fedeli che in quei giorni ci avevano lasciato. Dalle mie labbra sgorgava spontaneo chiedere al Signore di donare loro l’eterno riposo e che splendesse per essi la sua luce perpetua. Dal cuore commosso e pieno di lacrime che a fatica riuscivo a trattenere, in modo quasi inaspettato, emergeva però un’altra preghiera, quella all’angelo custode. Spontaneamente chiedevo a loro, che sentivo in comunione con tutti i Santi, di illuminare i nostri passi incerti, di custodire le nostre case minacciate dal virus, di reggere e proteggere i cuori spaventati e feriti, di governare e guidare verso la salvezza noi, che a loro eravamo stati affidati dalla pietà celeste, cioè da quell’amore di Dio che ora potevano contemplare faccia a faccia. Era il desiderio di sommessa alleluia che riempie il silenzio delle lacrime, di alba pallida che squarcia le ombre più buie, di speranza di risurrezione che toglie il diritto di avere l’ultima parola alla croce, ad ogni croce pesante che il virus ha posto sulle spalle di tante vite e di tante famiglie. Alla virulenza travolgente del contagio, che prima sembra un poco che si placa ma non si spegne e rialza la cresta della sua violenza, subentra la comprensibile ansia di ricominciare, riprendere, rialzarsi, ripartire. In realtà non è soltanto un sentimento: è una necessità, un dovere, una responsabilità. Ma non si tratta semplicemente di voltar pagina il più velocemente possibile, di ritornare al più presto a ciò che abbiamo sempre fatto. A bisogni essenziali non risponderemo solo in modo essenziale e non vogliamo riporre nella vetrina dei gioielli il patrimonio di generosità diffusa e solidale, di competenze affidabili e coraggiose, di responsabilità per il bene comune che abbiamo arricchito in questi mesi. Percorrendo questa terra orgogliosa e sorprendente posso riconoscere ed ammirare la quotidiana, determinata ed ammirevole capacità di solidarietà che si fa prossimità e fraternità. La competenza, la generosità, e la responsabilità personale e condivisa, non sono solo requisiti che fanno funzionare le cose, ma pilastri morali necessari alla costruzione di una casa comune e di una comunità cristiana “fraterna, ospitale e prossima”. Ed è in questo orizzonte che, nello stile della sobrietà e dell’essenzialità, ho indicato il “servire la vita dove la vita accade” come motto e impegno per quest’anno alla diocesi. 
Il Vescovo Francesco Beschi

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