Territorio
Paolo Storoni: «A Bergamo per fare squadra»
Cita Aristotele («Il tutto è superiore alla somma delle parti») e Pascal («In fondo a ogni verità, bisogna aggiungere la verità opposta»): il colonnello Paolo Storoni, 47 anni, quattro lauree (in Giurisprudenza, Scienze della Sicurezza Interna ed Esterna, un master di II livello in Scienze Criminologiche e Forensi e uno in Studi Strategici e Sicurezza Internazionale - ma, quando glielo si fa notare, glissa elegantemente), tre decadi nell’Arma (e una lunga esperienza nel ROS), dall’ottobre del 2017 dirige il comando di via delle Valli.
Un bilancio di quest’anno?
«Si tratta di un’esperienza molto diversa rispetto ai miei trascorsi professionali. Bergamo è una realtà territoriale che mi ha impressionato positivamente: sostanzialmente sana, con una classe imprenditoriale laboriosa e persone votate al lavoro. Rilevo spirito di collaborazione con l’Arma - forse in virtù della nostra presenza capillare in tutta la Provincia - e sinergia con le amministrazioni comunali, anche per la costruzione e il mantenimento di immobili e caserme. Dal punto di vista operativo - come, mediamente, ogni città del Nord - è caratterizzata da fenomeni di microcriminalità diffusa: truffe agli anziani, furti in abitazione. Ambiti in cui avviene un salto di qualità quando si instaura una collaborazione con le amministrazioni locali in termini di predisposizione di impianti di videosorveglianza cittadina - rappresentano il futuro della sicurezza - nonché l’abbattimento della fisiologica diffidenza tra il cittadino e gli operatori di polizia, che si traduce in uno scambio informativo intelligente: la comunicazione tempestiva risolverebbe in modo preventivo tanti piccoli reati».
Senza tralasciare il problema degli stupefacenti.
«Comune a tutta la Lombardia e, più in generale, alle città con un buon livello di ricchezza. È un mercato prevalentemente gestito da stranieri, in primis albanesi. Ove possibile si finalizza l’indagine a smantellare l’organizzazione, piuttosto che i sequestri di piazza, che portano al fermo del piccolo pusher. Si cerca di risalire la piramide per arrivare ai vertici dell’organizzazione, benché non sia facile: implica l’impiego di parecchie risorse, umane ed economiche».
Poco dopo l’insediamento, dichiarò di voler investigare su eventuali infiltrazioni mafiose nel territorio orobico. A distanza di un anno il quadro è più chiaro?
«Al momento non si riscontrano organizzazioni ramificate e strutturare. Stiamo ponendo la massima attenzione sui singoli soggetti, poiché potrebbero costituire i terminali di filiere originarie di altre zone geografiche. Va precisato che non si sono mai verificate manifestazioni malavitose accadute, invece, in altre aree della Lombardia: mi riferisco a incendi di macchine operatrici e danneggiamenti di esercizi commerciali, marcatori preziosi per rilevare presenze mafiose. Facciamo periodici approfondimenti investigativi su chi arriva da fuori e apre attività commerciali, per controllare non si tratti di riciclaggio di denaro. Certamente Bergamo è stata toccata nel tempo, poiché è un macro problema che ha interessato tutto il Settentrione nel periodo topico della crisi economica. Al Sud l’imprenditoria è asfissiata, ma esiste un’ingente quantità di capitale da reinvestire, proveniente dal racket delle estorsioni, traffico di armi e stupefacenti, prostituzione. Nel corso degli anni è stato trasferito a Nord, dove ci sono imprese che lavorano e banche che non elargiscono facilmente denaro. Alcuni industriali, pur di andare avanti, hanno accettato proposte di credito lusinghiere e subdole: una scelta che ha determinato l’ingresso nelle imprese di individui legati alla criminalità organizzata che, dalla sera alla mattina, ne diventavano i padroni, portando spesso quella realtà al fallimento. Questo fenomeno, seppur in misura diversa, è arrivato anche a Bergamo. Negli ultimi anni si è cercato di avvicinare il carabiniere al cittadino, con buone politiche comportamentali, cercando di superare rigidismi burocratici. Ripeto continuamente ai miei carabinieri che il nostro faro deve essere la ragionevolezza, il buon senso. La legge va applicata in maniera equilibrata, per dare dimostrazione che lo Stato esiste e opera intelligentemente, comprende le difficoltà della popolazione, fornisce collaborazione e vicinanza».
Ha una visione decisamente empatica e umana della sua professione, che considera una missione. Una concezione ereditata da suo padre e suo nonno, a loro volta nell’Arma?
«Certamente mi hanno trasmesso un modello comportamentale orientato alla vicinanza con il cittadino. Personalmente, poi, ritengo che questo mestiere sia intriso di una grande vocazione sociale, di aiuto e supporto: una convinzione che mi deriva anche dal piacere di leggere e studiare. Mi piace sempre ricordare che l’autorità del Carabiniere non si estrinseca nel “potere di comandare” ma nel “privilegio di servire”. E questa distinzione importante deve guidarci ed ispirarci ogni giorno. Nelle tante indagini condotte quando ero nel ROS, ho imparato che ci sono tante verità. E che la verità non sta mai soltanto da una parte: parafrasando una massima, “In fondo a ogni verità, aggiungi parte dell’altra verità”. C’è la visione del carabiniere, ma anche quella del cittadino onesto che paga le tasse, o quella del disoccupato: non esiste un punto di vista giusto e uno sbagliato, ma bisogna prestare attenzione a questo pluralismo. Me l’ha insegnato l’attività investigativa: scoprivo, puntualmente, che le apparenze spesso non corrispondevano al reale. Il modello del carabiniere di “Pinocchio”, che punisce e porta in prigione, è superato: l’applicazione della legge deve essere intelligente, non intransigente, di rigore fino a se stesso».
Le manca l’adrenalina che si respira nel ROS?
«Sì. È stata il motivo per cui ho abbracciato questa professione. Ho potuto imparare il metodo, la capacità di sviluppare un pensiero strategico, la necessità di conoscere a fondo l’avversario, la ponderazione nell’aspettare il momento opportuno per agire. Sono stati anni intensi, anche dal punto di vista delle relazioni umane: capisci davvero il valore del gioco di squadra, volto alla valorizzazione delle qualità del singolo. Nascono rapporti profondi, che prescindono dai vincoli gerarchici. Una mentalità che cerco di trasporre anche in questa esperienza bergamasca, sebbene i numeri siano profondamente diversi: contiamo oltre 800 carabinieri nell’intera provincia. Con gradazioni e sfumature diverse, però, l’aspetto della cooperazione e della fiducia sono fondamentali: gli occhi del carabiniere che sta nel paesino in montagna, di fatto, sono i miei».
Di recente avete arruolato 35 giovani carabinieri. Tutti provenienti da fuori, perché - sottolineava - il problema dell’Arma in Lombardia è che sono pochissimi i giovani a sognare questa carriera.
«Il Nord ha sempre offerto ai giovani molti sbocchi occupazionali, con un buon ritorno economico a prescindere dal livello di istruzione. Quel che accade è che, visto l’elevato costo della vita, i ragazzi che arrivano dal Sud cercano poi di fare ritorno vicino a casa. Il Ministero sta facendo parecchi sforzi per sanare queste carenze organiche, colmando i vuoti».
Se non avesse seguito le orme dei suoi avi, quale strada avrebbe preso?
«Chissà, probabilmente avrei fatto l’architetto. Ma, in realtà sono convinto di fare il mestiere più bello e appassionante del mondo: perché ho a che fare con le mille sfaccettature dell’essere e del sapere umano. Un carabiniere è un tecnico giuridico, che conosce e applica le norme. È un sociologo, poiché sonda cosa si cela dietro a certi fenomeni, cercando di attivare meccanismi preventivi. Bisogna anche essere un po’ psicologi - necessario per capire chi si ha davanti - e operatori sociali, nel ricevere la confessione di un cittadino e dare parole di comprensione. Una volta prevaleva una rassegnata e passiva accettazione dell’autorità, mentre oggi si predilige una vicinanza e reciprocità con il cittadino, applicando le leggi in maniera etica».
Nonostante il calo dei reati nella Bergamasca, evidenziava il divario tra insicurezza reale e insicurezza percepita.
«Un calo che rispecchia la tendenza nazionale: eppure permane una percezione diversa. Faccio un esempio: pensiamo alla stazione ferroviaria, un’area di cui si parla spesso, ma intorno alla quale i reati sono in netta diminuzione. Ovviamente è importante dare al cittadino risposte anche in termini psicologici, infondendo fiducia e sicurezza»
Al contrario, l’allarme terrorismo sembra rientrato.
«Ma l’attenzione è costante: da parte nostra non è cambiato l’impegno nel monitoraggio del territorio, anche perché la Lombardia è stata una delle regioni più interessate in termini di foreign fighters e di soggetti legati alla galassia radicalizzata. Fondamentale il virtuoso scambio di informazioni con il ROS, i colleghi della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, così come quello con la società civile. Basta leggere la narrativa di settore su internet, anche in fonti aperte, per imbattersi in costanti messaggi di attentati nei confronti dell’Occidente. È fondamentale fare sistema: 20 anni fa il nemico era costituito da organizzazioni forti, strutturate militarmente e, per assurdo, più facili da stanare; oggi, invece, si tratta di individui militarmente impreparati, che a un certo punto cominciano ad avere comportamenti anomali, intraprendono in modo isolato percorsi di radicalizzazione e di repulsione verso tutto quello che rappresenta l’Occidente come avvenne per il ragazzo franco-tunisino sulla Promenade a Nizza. L’informazione tempestiva del vicino data riservatamente è fondamentale, perché permette di arrivare prima del dramma. Con l’Università di Bergamo abbiamo organizzato un master di II livello sulla prevenzione e deradicalizzazione delle forme terroristiche di tipo confessionale, per dare concretezza a questa visione: oggi combattere il terrorismo non è soltanto un problema investigativo. La direzione vincente è che i vari attori istituzionali e la società civile facciano sistema».