Territorio
Crolla la diga, vidi la Presolana in fiamme
Vilminore. Il primo dicembre 1923, alle ore 7.15, una montagna d’acqua, stimata tra i sei e gli otto milioni di metri cubi, si riversava sui comuni della Val di Scalve. Il primo borgo ad essere colpito fu Bueggio: si era appena squarciata la diga del Gleno, a pieno regime da qualche settimana (il 22 ottobre, il bacino completava il riempimento ndr). Successivamente, l’enorme massa d’acqua, preceduta da un imponente spostamento d’aria, distrusse le centrali idroelettriche di Povo e Valbona, il ponte Formello ed il Santuario della Madonnina di Colere. In seguito, fu travolto e raso al suolo Dezzo, abitato posto tra i territori di Azzone e Colere. Raggiunta la gola della via Mala, si formò una sorta di lago, salvando l’abitato di Angolo da distruzione certa mentre a Mazzunno vennero spazzati via sia la centrale elettrica, sia il cimitero. La fiumana d’acqua, fango e detriti discese, quindi, velocemente verso Gorzone e proseguì verso Boario e Corna di Darfo, seguendo il corso del torrente Dezzo e mietendo numerose vittime al suo passaggio. Quarantacinque minuti dopo il crollo della diga, la massa d’acqua raggiunse il lago d’Iseo, lasciandosi dietro distruzione e trecento-cinquantasei morti ufficiali ma i numeri del disastro restano ancor oggi incerti. Tra l’altro, vennero distrutti anche opifici ed impianti industriali, impoverendo economicamente la valle. Ciò che è certo, invece, sono le responsabilità: il 30 dicembre 1923, il Procuratore del Re incolpava i responsabili della ditta costruttrice Viganò ed il progettista ingegner Santangelo per omicidio colposo plurimo. Nel processo, emerse: che i lavori erano stati eseguiti male ed al risparmio; che il progetto era stato cambiato più volte, in corso d’opera, ma senza le opportune verifiche e che il controllo da parte del Genio civile era stato svolto in maniera approssimativa e superficiale. Il 4 luglio 1927 il Tribunale di Bergamo condannava Virgilio Viganò e l’ingegner Santangelo a tre anni e quattro mesi più 7.500 lire di multa. Da allora, ogni primo dicembre in Val di Scalve, si ricorda il disastro. Quest’anno anche la nostra rivista vuole ricordare l’accaduto e le popolazioni colpite. Per l’occasione, abbiamo intervistato in assoluta esclusiva uno degli ultimi testimoni del disastro. Lei ha recentemente compiuto cent’anni. Ne aveva nove al momento della tragedia. Si chiama Apollonia Tagliaferri. Oggi risiede a Vilminore.
Dove si trovava al momento del crollo?
Ero a casa, mi stavo preparando per andare a scuola.
Cosa successe?
Era un sabato, una mattinata molto fredda, piovigginava (è possibile fosse il vapore acqueo dell’enorme massa d’acqua; alcuni testimoni si trovarono infradiciati all’improvviso ndr) e c’era un po’ di neve. Ad un tratto, vidi la Presolana in fiamme e non ne capivo il motivo. Ebbi molta paura.
S’era squarciata la diga, Lei seppe subito del disastro?
Sì perché mio fratello doveva fare delle consegne quel giorno. Lo fecero chiamare dal negozio dicendogli di non venire perché era crollata la diga. Tra l’altro se si fosse alzato, come suo solito, di prima mattina per andare al lavoro, forse, sarebbe stato coinvolto nel disastro.
Invece, si salvò...
Sì proprio perché quella mattina si era svegliato tardi. Più tardi del solito. Noi, a quel tempo, abitavamo a Campiù, distanti dai luoghi toccati dal disastro. Ci salvammo per questo motivo.
Nei giorni seguenti, cosa successe?
A scuola se ne parlò molto. Dopo il disastro, chiamarono gli uomini per tirar su gli operai e rimetter tutto apposto. Anche i miei fratelli andarono a dare una mano. Quella domenica (il 2 dicembre ndr) la messa fu celebrata più presto del solito: fu molto breve e si pregò per i morti (da quel giorno, ogni anno, si commemora la tragedia ndr). In generale, la gente era molto arrabbiata. Qualche giorno dopo (il 3 dicembre 1923 ndr), venne il Re in visita (Vittorio Emanuele III ndr). Ricordo che era molto basso e che qualcuno si lamentava dei responsabili del disastro.
Vide la diga ultimata?
Sì, la vidi prima e dopo il disastro. Conoscevo il guardiano, il sig. Morzenti (Francesco ndr). Dopo il disastro, prendemmo a chiamarlo Petö salti (piè veloce ndr). Lui si salvò (quella mattina era al suo posto di lavoro sulla diga, la vide mentre si crepava e veniva travolta dall’acqua; corse a perdifiato per salvarsi e per questa ragione venne chiamato “Petö salti”) mentre Paolo Sizzi morì (è l’unico residente a Vilminore morto a causa del disastro ndr). Conoscevo anche lui, aveva vent’anni e lavorava alla centrale (una delle centrali idroelettriche preesistenti ndr). Mi ricordo anche di chi lavorava alla diga: le donne trasportavano i sacchi di cemento a piedi (dall’ultimo abitato alla diga è un’ora di cammino su una stretta mulattiera ndr), due volte al giorno, ed erano contente perché almeno guadagnavano qualcosa. Crollata la diga, qualcuno a Vilminore pensava che ci sarebbe stato ancora da lavorare per ricostruirla. Si sperava nella ricostruzione per lavorare ancora (Vilminore non è stato toccato dal disastro ndr).
È vero che la montagna d’acqua ha cambiato la valle?
Sì, la frana ha scavato la valle. Una volta c’era una strada pianeggiante lungo il fiume (Dezzo ndr). Era un selciato. È stata cancellata e, nei nostri discorsi così come nei nostri ricordi, la memoria del disastro è rimasta sempre molto forte anche se dove abitavamo non ci fu nessuna conseguenza.
Secondo Lei, era prevedibile il crollo?
Sì. So che chi poteva, a Dezzo, dormiva altrove. Chi aveva lavorato nel cantiere della diga vedeva ogni giorno che il materiale usato non era buono, che non si lavorava bene e che si facevano le cose alla buona.
C’era paura perché si temeva che sarebbe crollata da un momento all’altro però, d’altra parte, se fosse crollata, si pensava che sarebbe stata ricostruita e che ci sarebbe stato ancora da lavorare.