Personaggi
«Il mio modello? Mio marito: Beppe Remuzzi»
«Cos’è, per me, la cultura? È ciò che fa crescere un individuo. È motore di sviluppo sociale ed economico. È aggregazione: la comunità che si riconosce nel proprio patrimonio è più coesa. Ho lavorato parecchio - sebbene non stia a me stabilire con quali risultati - affinché questa città percepisse come sue le bellezze storiche e artistiche del territorio». Nadia Ghisalberti ricopre il ruolo di assessore alla Cultura (turismo, marketing territoriale, tempo libero ed Expo) del comune di Bergamo dal 16 giugno 2014. Il suo mantra? Più cultura. Trasformato in hashtag in occasione della recente corsa alle Regionali. Durante il suo mandato, effettivamente, la Città dei Mille ha posto le arti al centro dell’agenda politica (con forti impatti persino sull’economia: come dimostra l’approfondimento nel box a pagina 12): riapertura dell’Accademia Carrara, cambio dei direttori ai vertici di cinque delle più importanti istituzioni cittadine, nascita (e rilancio) di diversi festival. Ciliegina sulla torta, l’essere riuscita nell’ambizioso proposito di far «innamorare Bergamo di quel meraviglioso e folle genio di Gaetano Donizetti» (citando Francesco Micheli, coprotagonista dell’epica impresa). «È stato il cambiamento più significativo e meglio colto dalla cittadinanza: grazie all’intenso lavoro sulla lirica fatto con il nuovo direttore artistico, Micheli, capace di contagiare chiunque con il suo entusiasmo. Certamente si tratta di trasformazioni che necessitano di tempo e vanno consolidate: la riapertura del teatro darà un ulteriore impulso a questa progettualità».
Le Donizetti night si sono rivelate un grande momento di aggregazione.
«Prima nessuno parlava di lirica: ora il nome del compositore de “L’elisir d’amore“ è sulla bocca di chiunque. Abbiamo ideato la “Donizetti night” in occasione di Expo e, stupefatti del riscontro, l’abbiamo trasformata in un appuntamento fisso: quest’anno cadrà il 16 giugno. Un modo per portare l’opera fuori dai templi sacri, affinché si riversi per le strade della città. Un approccio capace di avvicinare una differente tipologia di pubblico a quella che, a mio avviso, è una delle più complesse forme d’arte, poiché è la summa di diversi linguaggi: melodie, dialoghi, scenografie, costumi. Bella e complessa: come, del resto, è la vita».
Il titolo di lirica che più ha amato?
«La “Lucia di Lammermoor” di Francesco Micheli, che ha debuttato lo scorso anno alla Fenice di Venezia».
E quello di prosa?
«”La verità” di Finzi Pasca: spettacolare, con quel telero di Salvador Dalì. Ma anche “Il visitatore” di Schmitt, con il bravissimo Alessio Boni».
Pare che la riapertura del Donizetti possa slittare a causa di alcuni imprevisti nel cantiere.
«Sono ottimista, tuttavia preoccupata. Purtroppo il restauro è arrivato in un momento particolarmente felice - sia di pubblico che di critica - per lirica, prosa e jazz. Due anni senza teatro Donizetti fanno sì che si vada in affanno. Il Sociale è meraviglioso, ma ha gli stessi costi - alle volte persino maggiori - ed è più piccino. Per ottenere il medesimo sbigliettamento è necessario aumentare le repliche: incrementando, di conseguenza, le spese. Al Creberg il jazz ha funzionato bene, ma è impossibile portarci la lirica. Questi dislocamenti influiscono inevitabilmente sulle scelte artistiche».
Di cosa va maggiormente fiera relativamente a questi quattro anni?
«Di aver cercato di far crescere le realtà più significative. Alcune sono proprio sbocciate: penso a Orlando o The Blank. Indimenticabile, poi, la riapertura della Carrara, o la mostra su Raffaello. E poi il teatro: non vedo l’ora che riapra i battenti».
Incontri umani particolarmente arricchenti?
«Tutti. Il cambiamento culturale di questi quattro anni è passato soprattutto attraverso le nuove nomine: Maria Grazia Panigada per la prosa, Francesco Micheli per la lirica, Cristina Rodeschini alla Carrara, Roberta Frigeni al Museo delle Storie e Lorenzo Giusti alla Gamec».
Ha speso parole di elogio per il sistema bibliotecario urbano.
«Ne apprezzo la ricchezza e il valore intrinseco: è il primo accesso gratuito alla cultura. Bergamo vanta due fiori all’occhiello: la Mai, più conservativa, che con la sua storia è anche museo di se stessa, e la Tiraboschi, luogo di pubblica lettura. Ho un solo rammarico: vorrei ci fosse una maggiore frequentazione da parte dei nuovi cittadini, che rappresentano il 16% dei residenti».
Si è appena conclusa la mostra dedicata a Raffaello.
«I numeri sono andati oltre ogni aspettativa: in termini di pubblico, di critica e di interesse da parte della stampa nazionale. Ha subito collocato la Carrara alla pari con i grandi musei italiani e internazionali, grazie ai prestiti arrivati da tutto il mondo».
Uno dei suoi figli, Livio, è attore teatrale: ne consegue una particolare affezione nei confronti della settima arte?
«Ho sempre amato il teatro, sin da giovane. E il cinema: di impegno civile, esistenziale. La lirica, invece, è una passione sbocciata in età adulta».
La poltrona da sindaco le interessa?
«Per niente. Inoltre, trovo che sia molto ben occupata».
A proposito: ha smaltito la delusione per come è finita la partita in Regione?
«Mi è spiaciuto soprattutto per l’enorme distacco tra Gori e Fontana: immeritato. Ma il risultato elettorale va accettato. Non smetterò di chiedere alla Lombardia di investire in cultura: perché è un motore, non un lusso. È inconcepibile che una delle aree più ricche d’Europa destini solamente l’1% alla cultura».
Cosa vorrebbe si dicesse del suo mandato, tra un paio di decadi?
«Che ho avuto capacità di ascolto e valorizzazione delle peculiarità di ciascuno, soprattutto delle persone con cui ho lavorato a stretto contatto. Ma, francamente, dubito scriveranno di me».
Ambisce a un nuovo mandato?
«Non ci penso. Sono immersa in ciò di cui mi sto occupando, pur avendo molte idee per il futuro».
Tra i suoi predecessori di chi apprezza maggiormente l’operato?
«Salvo alcune eccezioni, sono in molti ad aver ben operato per la città».
Si occupa di cultura da sempre, considerata la lunga esperienza come docente di biologia al Falcone e al Secco Suardo.
«Anni importanti: la scuola ti mette a confronto con un’eterogenea moltitudine di ragazzi con i quali condividi un pezzo di vita. Essere insegnante è una grande responsabilità - persino maggiore di quella di assessore - perché per quei giovani diventi un riferimento, un modello. Non si trasmettono soltanto conoscenze, ma anche gli strumenti per affrontare il domani. Spesso mi capita di incontrare le mie ex studentesse in giro, per le manifestazioni culturali: mi chiamano ancora “profe”. Ce n’è una che ha quattro bimbi piccini e viene sempre a teatro con loro».
Per loro è stata un riferimento. Ma il suo modello, invece, chi è?
«Mio marito, Giuseppe Remuzzi. Non vorrei sembrare banale, ma la sua presenza ha parecchio influito nella persona che sono oggi e in ciò che faccio: sarà che ho passato la mia vita al suo fianco».
Laurea in biologia: rimpiange di non aver fatto la ricercatrice?
«No. Chissà, forse non lo avrei nemmeno sposato. La cosa buffa è che - fresca di laurea - io e un’amica sostenemmo un colloquio al Mario Negri. Alla fine, però, optammo per un altro percorso professionale». Rossella Martinelli