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Sylvie Ménard: «Io, oncologa malata di cancro, dico no all’eutanasia»

settembre 2018

«La vede questa pianta?» - chiede indicando uno dei tanti rigogliosi alberelli da frutto che trionfano sulla grande terrazza con vista Città Alta - «Qualche mese fa, mio figlio disse che era arrivato il momento di buttarla, perché si era ridotta a un tronchetto secco. Così strappai un ramoscello, lo spezzai a metà e gli mostrai che all’interno era verde: era la linfa. “Qui dentro c’è ancora la vita che pulsa, Laurent. Dobbiamo solo aspettare”, gli risposi. Oggi può constatare lei stessa quanto sia bella! È una goduria poterla ammirare. Bastava soltanto avere pazienza. Questa pianta è un miracolo: così come lo è la vita. Deve esistere per forza un qualcosa di eccezionale e superiore che ha creato tutto ciò, sebbene da scienziata non riesca a conciliare Adamo ed Eva con la Teoria dell’Evoluzione».
Sylvie Ménard ha lottato ogni istante della sua vita contro il cancro: per quattro decadi all’Istituto Nazionale dei Tumori - dapprima allieva del professor Veronesi, in seguito a capo del dipartimento di Oncologia sperimentale, distaccandosi come una delle più autorevoli ricercatrici mondiali per il carcinoma della mammella - ma negli ultimi tredici anni quella battaglia è diventata ancor più personale.
«Sono nata il primo luglio 1947 sotto il segno del Cancro e sono “morta” il 26 aprile 2005, di cancro», recita l’incipit di «Si può curare» (Mondadori), in cui ripercorre il doloroso percorso di malata oncologica, colpita da un raro tumore del midollo osseo, il mieloma multiplo. Da quel giorno la sua esistenza viene sconvolta: stando dall’altra parte della barricata coglie l’urgenza di insistere su una maggiore umanizzazione delle cure e la coltivazione di un diverso rapporto medico-paziente («quanto preferirei fare un esame in meno e una chiacchierata in più», scrive), così come la necessità di ridurre i tempi di attesa per la formulazione di una diagnosi («se per me ci sono voluti 18 giorni di vita sospesa, chissà quanto ci può mettere un paziente qualsiasi, in un qualsiasi ospedale italiano»). Soprattutto, cambia radicalmente idea sul testamento biologico (benché ne avesse redatto uno a 30 anni, poi strappato in mille pezzetti) e l’eutanasia: realizzando che qualsiasi vita - sì, persino quella di una pianta - vale sempre la pena di essere vissuta. Fino all’ultimo secondo.
Cos’ha provato lo scorso 31 gennaio, quando il biotestamento è diventato legge?
«Ho pianto. Mi sono spesa parecchio - girando l’Italia tra convegni e conferenze - per far capire all’opinione pubblica che questa legge, in realtà, non protegge nessuno. Così come è stata votata, non c’entra nulla con l’eutanasia, né con il diritto del paziente di dire cosa vuole si faccia di lui. È solo per quelle 4000 persone (all’incirca) in stato vegetativo, che possono lasciare le loro disposizioni, ma in realtà nessuno può sapere come reagirà in caso di malattia grave. Inoltre, considerato che le normative italiane sono sempre un po’ ambigue, finirà col giovare principalmente agli avvocati, i quali dietro lauti compensi dovranno decidere se sia applicabile o meno. Senza contare gli interessi economici di nipoti e pronipoti alle spalle».
Chissà quante persone avrà conosciuto nel corso di queste conferenze.
«L’incontro più toccante è stato quello con Massimiliano Tresoldi: un ragazzo finito in stato vegetativo per dieci anni, durante i quali - ogni santo giorno – andavano a trovarlo amici e parenti. Nonché la mamma; una sera, stanca, gli disse; “Senti, il segno della croce non te lo faccio, se vuoi fattelo tu”. E lui obbedì. Certo, è su una sedia a rotelle e ha dovuto imparare da capo a parlare e scrivere, ma ha un sorriso che illumina il mondo. Lui e sua madre sono un esempio meraviglioso di quanto forte e catartico possa rivelarsi l’amore nei confronti della vita: non possiamo permettere che una legge la condizioni».
Qualcuno sostiene che l’attaccamento alla vita - così come un approccio ottimistico - possano essere preziosi alleati persino nella lotta al tumore.
«Assolutamente: ma contesto che spesso passi il messaggio che siano di solo appannaggio dei credenti. Anche un ateo non può che rimanere esterrefatto di fronte alla meraviglia di questa vita: c’è qualcosa di unico, irriproducibile, se da sempre gli scienziati cercano di ricrearla in laboratorio, ma non cavano un ragno da un buco. Le racconto una cosa: ogni anno, in ottobre, pianto i tulipani nella mia casa in Liguria, poiché il giardinaggio è la mia passione. Nell’ottobre del 2005 mi apprestavo a iniziare il primo ciclo di chemio: fui sopraffatta dallo sconforto nel pensare che, probabilmente, non ci sarei più stata sei mesi dopo, per assistere a quel tripudio di colori. Alla fine decisi di seminarli comunque: capì che la bellezza della natura era un dono per tutti, a prescindere dalla mia presenza. Oggi non mi spaventa nemmeno piantare un albero ad alto fusto, pur avendo l’assoluta certezza che fra trent’anni non sarò più qui».
La fa arrabbiare quando qualcuno etichetta come “indegna” l’esistenza.
«Le uniche vite che meritano di essere definite indegne sono quelle dei politici corrotti o di chi uccide un altro essere umano. Indegno è chi ritiene tale l’esistenza di un malato di SLA. Quando la salute viene meno, si cerca di vivere a tutti i costi: lo dico per esperienza. Semmai, dovremmo elargire maggiore assistenza - soprattutto domiciliare - a certe categorie. Nessuno sceglie di ammalarsi: ma è pur sempre meglio quella vita, rispetto alla morte».
Come reagì il professor Veronesi al suo cambio di posizione rispetto all’eutanasia?
«Prima che uscisse il libro andai da lui, per anticipargli il mio pensiero. Ne scaturì un confronto molto interessante, nel quale mi ribadì che non avrebbe mai sopportato che il suo corpo si deteriorasse dal punto di vista fisico. Scherzando, gli dicevo che prima di tutto curava le sue pazienti facendole innamorare di lui. Infine, virò verso la convinzione che il deterioramento peggiore fosse quello mentale. Oggi penso che anche quando il cervello si annebbia - siccome il paziente non ne ha una reale percezione - la vita valga la pena. Me ne sono accorta durante i cicli di chemio cui mi sono sottoposta: ero totalmente scissa dalla realtà. Mi sentivo un feto dentro all’utero materno, con quel tubo della flebo tanto simile a un cordone ombelicale. Anch’io, in quella camera sterile, attendevo la mia rinascita».
Oltre a Veronesi, nel libro fa riferimento a un altro famoso oncologo: Franco Berrino. Segue ancora i dettami di quella dieta?
«Per un anno sono stata rigorosissima: andavo a pranzo nella sua cucina - la famosa “Cascina Rosa”, accanto all’istituto - dove mi aspettava anche una “schiscetta” per la cena. Dieta totalmente macrobiotica, senza latte, carne o zucchero. Ritengo, però, che per un malato sia più facile non trasgredire, poiché ha una motivazione fortissima: salvare la pelle. Invece, da sana, si fatica di più: si tratta di un regime estremamente rigido, che andrebbe riformulato tenendo in considerazione le linee guida della dieta mediterranea. Non credo sia così dannoso mangiarsi una bistecca o un pezzetto di formaggio, ogni tanto. Guai - tra l’altro - a togliere la carne ai bambini: da dove ricavano il ferro, altrimenti? Certo, esistono alcune alghe capaci di supplire, ma non fanno parte della nostra tradizione culinaria. Ormai ho totalmente bandito gli zuccheri raffinati e prediligo il cibo integrale. Discorso a parte per il latte: siamo gli unici mammiferi ad assumerlo persino da adulti. Quando si è piccini, serve a stimolare la crescita, ma una volta divenuti grandi rischia di far crescere ciò che non dovrebbe, sebbene a oggi non sia che un’ipotesi e manchi una dimostrazione scientifica».
Come procede il suo tentativo di umanizzazione della medicina?
«Sembra di lottare contro i mulini a vento: la maggior parte dei medici - ahinoi, anche le giovani leve - crede che il proprio lavoro consista nel fare la migliore diagnosi e offrire la terapia più efficace. Alle volte, mancano di empatia: il paziente si trova di fronte a un foglio indecifrabile, nel quale spiccano parole spaventose, di ardua comprensione. Nessuno dà spiegazioni: ma lo sa che per tre quarti della mia vita ho “tradotto” diagnosi ai dipendenti della Pirelli? Ci lavorava Lucio, mio marito: ogni volta che c’erano dubbi, la risposta era “Chiama Sylvie”. Ho cercato - invano - di porre la questione a due diversi ministri della Salute: la prima, una decina di anni fa, ci ricevette dopo un paio d’ore di anticamera. Finito di illustrare il progetto, ci chiese interdetta: “E io cosa ci guadagno? Voti? Fama? Perché cambiare qualcosa nel nostro sistema sanitario, che è già il migliore del mondo?”. Insieme a me c’era Gianni Bonadonna: il più grande oncologo di sempre, nonché inventore della chemioterapia del tumore. Uno a cui - per dire - negli Stati Uniti hanno intitolato un premio. A 60 anni venne colpito da un ictus che lo rese atassico e lo costrinse a diventare paziente: solo allora capì di aver svolto la sua  missione a metà; aveva sempre creduto che la professione si limitasse al fornire una terapia: invece, la medicina deve essere portatrice di umanità. Mettersi nei panni del malato, dare conforto, fornire sostegno. Dire almeno una volta “insieme ce la faremo”».
Ormai ha diradato le partecipazioni ai convegni e si sta concentrando su un altro, prestigioso lavoro: quello della nonna. Cosa le ha insegnato questo nuovo capitolo della sua esistenza?
«Fare la nonna è decisamente il miglior finale che esista: quando mia nuora, Alessandra, ci ha comunicato di essere incinta, ero euforica. Sono appassionata di genealogia - al punto che scrivo libri in cui ripercorro la storia dei rami della mia famiglia - e realizzare che nei miei nipoti, Gregorio e Alessandro, scorra il sangue di re e contadini francesi, è straordinario. Vederli crescere è un dono meraviglioso: è valsa la pena sottoporsi a tutte le terapie e fare i conti con il dolore, se questo è il risultato. Diventare nonni significa amare: senza limiti». Rossella Martinelli


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