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DINASTIE OROBICHE

CRISTINA RADICI: «La mia famiglia è la mia vera ricchezza»

dicembre 2017

Ci sono sogni che non svaniscono con le prime luci del mattino: anzi, è proprio allora che cominciano.
Come quello di una bambina bella e fortunata, cresciuta a Leffe all’inizio degli anni Ottanta; a chi le chiedeva cosa volesse fare da grande, rispondeva senza esitazione che lei, un giorno, sarebbe stata una sciatrice e avrebbe vestito i colori blu della nazionale.
A volte, però, bramare qualcosa è più importante che raggiungerlo. Perché se è vero che le illusioni sono il carburante per spiccare il volo, sono le delusioni ad insegnare a stare al mondo. E, visto da vicino, anche il più immacolato dei manti innevati nasconde lastre ghiacciate e poltiglia marrone.
La bimba cresce e gli scarponi diventano la naturale prosecuzione dei suoi piedi. Riesce persino a indossare quel tutone: ormai è un’adolescente.
Tuttavia, quel traguardo, ha un retrogusto amaro: perché l’agonismo non è solo l’adrenalina della discesa. Esiste un’altra faccia della medaglia: quella, meno piacevole, delle “persone dello sci”. Abbandona quell’ambiente. La vita continua: trova l’amore, ha tre figli. E arriva il momento di fare la pace con la neve: una passione che è difficile zittire. Tutta colpa del DNA.

«PLAY SPORT ACADEMY»
Capisce che per ricucire la ferita deve dare un senso diverso allo sci e riempirlo di nuovi significati.
Nasce così Play Sport Academy: un progetto cui quella bambina, ormai donna - Cristina Radici (coniugata Percassi) - lavora dal 2014, insieme a Ennio Frigeni («Se non ci fosse lui!», esclama), già vicepresidente dello Sci Club Radici e storico braccio destro di Olga Zambaiti (sua madre, nonché presidente del Club; «È stata lei a orchestrare tutto», aggiunge ).
«Il nostro obiettivo è trasmettere ai più piccoli l’amore per questo sport, soffermandoci sul risvolto ludico. Ogni genitore reputa fondamentale che la prole impari a nuotare; lo sci, invece, viene visto come qualcosa di non necessario: eppure abbiamo la fortuna di essere circondati dalle montagne. Dopo aver fatto un rodaggio iniziale con la scuola dei miei figli, oggi collaboriamo con all’incirca una ventina di realtà scolastiche della Bergamasca. Cerchiamo di contenere i prezzi grazie ai numerosi sponsor, ma da mamma mi rendo conto che tre mesi di sci costano come un anno di calcio. Sarebbe meno dispendioso se potessimo contare su un fondo della Regione o della Provincia: ci permetterebbe di interagire con un maggior numero di istituti. Credo profondamente nel ruolo sociale dello sport: distoglie i giovani dall’ozio e dall’ossessione dello smartphone, trasformandosi in un’occasione di aggregazione. Ecco perché abbiamo messo a punto un calendario di attività diverse: a seconda della stagione, contempla la vela, l’acrobatica e un corso di multisport, rivolgendosi a una fascia eterogenea, che va dai 4 ai 16 anni».
Tra gli 850 tesserati di Play Sport Academy ci sono anche i tre figli di Cristina e Luca: Giovanni, 10 anni (un omaggio al bisnonno materno, Gianni, nonché al Papa Buono), Alessandro, 8 anni (per il Patrono, battezzato “Alessandro Angelo Antonio”, come i nonni Radici e Percassi) e Angelo (secondo nome, Francesco, in onore del Pontefice). «Ma la loro passione è il calcio: con rammarico dei miei genitori - puntualizza divertita -. Dicono che, da grandi, faranno i calciatori».

ALLO STADIO PER TIFARE LA “DEA”
Sì: perché oggi la vita di Cristina ha le nuance del nero-blu. È un’atalantina sfegatata, al punto che non si perde nessuno dei match casalinghi. «Quando riesco, vado in trasferta: diventano delle gite in famiglia, nonché il solo modo di trascorrere la domenica insieme a Luca. La più bella? Quella di Empoli: in treno con amici, e poi tutti in trattoria con i bambini che giocavano sul prato, tra le colline toscane. A rendere ancor più magico quel giorno è stata la vittoria: fondamentale per il quarto posto in classifica e l’accesso diretto in Europa. Un rimpianto? Non esserci stata quando espugnammo San Siro, nel 2013. Ero a casa, seduta sul divano, che allattavo Angelo, appena nato. Rosico ancora».

LA SCIATRICE CHE SPOSÒ IL CALCIATORE
E dire che agli inizi della loro storia, il calcio proprio non le interessava. Cristina aveva 18 anni, Luca 20: lei nella nazionale di sci azzurro, lui difensore del Chelsea. «Siamo stati l’uno la rovina dell’altro, perché di lì a poco abbiamo deciso di interrompere le nostre carriere agonistiche - racconta, con genuina ironia -. Lui soffriva la distanza da casa: inoltre desiderava completare gli studi, per entrare nelle aziende di famiglia. Io, pur amando lo sci, non volevo che condizionasse la mia esistenza: puntavo a laurearmi (in Economia, ndr) e a viaggiare. Meglio se con Luca. La vacanza più bella? In Ecuador, in missione: regalo di laurea dei miei. Tornata in Italia, ci pensavo due volte prima di concedermi un caffè al bar: avevo toccato con mano la povertà, e sprecare quell’euro mi sembrava superfluo. Io e Luca siamo parsimoniosi: compriamo il necessario. La nostra vera ricchezza è la salute dei nostri bimbi».

LA LEZIONE DI NONNA LUCIANA E NONNO GIANNI
Una lezione appresa da nonna Luciana, mancata nel 2016, e filantropa per eccellenza (fondatrice di associazioni cittadine come la Lega per la lotta ai tumori, il Lions Bergamo le Mura, il club Amitié sans frontières, nonché benefattrice del Mario Negri e dei reparti di pediatria, oncologia, neurologia e patologia neonatale dell’ospedale di Bergamo). «Tutti noi nipoti - siamo in diciannove - abbiamo ereditato da lei il gene della solidarietà: ho delle cugine che, in totale silenzio, si adoperano alacremente per sostenere diversi enti. Era nata il giorno di Santa Lucia e ogni 13 dicembre faceva delle feste memorabili: quest’anno ci riuniremo a casa mia per ricordarla. È una gioia che anche i miei figli abbiano potuto viverla: gli ultimi mesi andavamo a fare merenda con lei, in ospedale, portandole una vaschetta di gelato all’amarena, di cui era golosissima. Purtroppo, non hanno conosciuto nonno Gianni. Pur guidando una multinazionale, riusciva a ritagliarsi del tempo per tutti i nipoti: spesso seguiva le gare di sci mie e di mia sorella, Mariella. C’era quando, nel 1995, vinsi il “Topolino”. Arrivava a fingersi un giornalista sportivo per avere in anteprima le classifiche: erano la sua fissa. Di recente sono andata a trovarli al cimitero di Leffe: mentre fissavo la loro foto, ho iniziato a piangere. Erano lacrime di gratitudine: hanno riempito la mia infanzia di momenti felici».

NONNO ANGELO (RADICI) E NONNO ANTONIO (PERCASSI)
I celebri nonni di Giovanni, Alessandro e Angelo, così in prima linea nell’imprenditoria nazionale, hanno meno tempo da dedicare ai nipoti. Presentissime, invece, le preziose nonne: Olga e Chiara. «Mio padre si è arreso da poco all’idea che lo chiamino “nonno”. Replicava: “Non sono così vecchio, chiamatemi Angelo o non vi ascolto”. A monopolizzare le conversazioni con nonno Antonio è, ovviamente, l’amata Atalanta. Tartassano di domande Luca: del resto lui e mio suocero prendono insieme ogni decisione. Gli ho affibbiato un soprannome: “Gianni e Pinotto”; se non sono insieme, si telefonano mille volte».

IL RUOLO EDUCATIVO DELLO SPORT
Giovanni non indossa la maglia neroblu esclusivamente la domenica, seduto in tribuna: milita nei pulcini dell’Atalanta, dove gioca come ala destra. «Ora che è grandicello si scontra con le frecciatine di chi lo considera un raccomandato. Gli spiego che deve farci il callo: sarà sempre così. Anche a me succedeva la stessa cosa. Per noi è importante è che si impegnino in uno sport, tanto più a livello agonistico: sarà un alleato per insegnare loro il sacrificio. Lo sci mi ha mostrato il volto della fatica: la sveglia all’alba, il gelo pungente sulle piste, rimanere alzati fino a notte fonda per mettersi a pari con i compiti, l’amarezza di una sconfitta. Le delusioni temprano: sono inevitabili, indicano la via».
Realizzare i propri sogni non significa necessariamente fare slalom tra distese innevate o mettere a segno un gol in Premier League. La nostra leggenda personale può essere diversa: può avere i connotati di tre bambini castani e il rumore delle urla delle domeniche passate allo stadio. Perché in cinque, sognare, è ancora più bello. (rm)

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