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Personaggi

SILVANA BONANNI

«Un imprenditore in difficoltà non va lasciato solo»

maggio 2015

Il nostro mensile ha incontrato la dottoressa Silvana Bonanni, psicologa e collaboratrice dell’Università degli Studi di Bergamo, per analizzare i contraccolpi psicologici per gli imprenditori dettati della crisi economica, anche alla luce dei drammatici fatti di cronaca che purtroppo hanno visto al centro imprenditori in difficoltà, talvolta autori di gesti estremi e lesivi per se stessi e per gli altri.

Dottoressa Bonanni, piccoli e medi imprenditori sono i primi a sentire gli effetti della crisi, dato che vivono l’azienda in maniera totalizzante: quali possono essere i contraccolpi dal punto di vista psicologico, di questa situazione?
Lo studio del territorio, in particolare delle piccole comunità del Nord Italia, cioè quelle popolazioni che a fine ‘600 - inizio ‘700 si trasferirono dalle montagne alle vallate, perché compresero che i fiumi potevano essere utilizzati a scopo proto-industriale, creando vicino ad essi delle vere e proprie comunità, secondo il motto “l’unione fa la forza”. Da questa idea di comunità è poi nata l’idea di imprenditoria condotta a livello familiare, il modello classico di business della regione Lombardia, ma anche di Veneto e Piemonte. Si tratta di un modello favorito geograficamente, in quanto dispone di luoghi che si prestano alla costruzione di capannoni, e caratterizzato dall’impiego lavorativo di tutta l’unità familiare, cosa che permetteva di aiutarsi reciprocamente senza dispersione di capitali. Molte piccole aziende si sono così ampliate in diversi settori (agricolo, industriale e artigianale), iniziando a effettuare scambi con l’estero: un modello che ha retto bene fino ai giorni nostri, fino all’impatto della crisi. In questa situazione se una famiglia è forte e ben piazzata affettivamente, può assorbire il colpo, mentre quelle dove ci sono pressioni emotive e crisi affettive sono le prime a cedere: svanito il guadagno, svanisce anche la possibilità di rimanere uniti.

Quali sono le tipologie di vissuto in questo senso?
Psicologicamente coloro che resistono basano la loro forza su uno spirito di sacrificio notevole, che deve trovare un substrato alimentato da fiducia da parte di coloro che compongono la famiglia: anche solo parlare con qualcuno può essere molto importante. Al contrario l’isolamento porta alla depressione, causa a sua volta di sfiducia. Un imprenditore in questa condizione psicologica potrebbe pensare di non farcela più e a quel punto potrebbe fare dei pensieri volti alla furbizia, pur di sopravvivere: nessuno, infatti, vuole davvero morire. La furbizia, però, non è sinonimo di intelligenza (può essere dettata da disperazione, superbia o anche da un’eccessiva autostima) e porta a eccedere, con comportamenti lesivi della propria figura. Un imprenditore potrebbe così pensare, ad esempio, di guadagnare qualcosa creando un incendio e incassando il rimborso dell’assicurazione oppure potrebbe avere un cedimento, pensando: “Se tutto questo non avvenisse verrei incriminato e peggiorerei la situazione”.
E’ un circolo vizioso, un loop da cui non c’è via d’uscita: è in questo momento che l’imprenditore stesso contempla l’idea del suicidio, per uscirne in modo dignitoso e salvando la propria famiglia. “Mi sacrifico io per tutti”.

Cosa può fare un imprenditore che si sente per l’appunto isolato, impotente e “contagiato” dai fallimenti altrui?
Innanzitutto bisognerebbe riacquistare fiducia in se stessi: è questo il motore principale, anche per far ripartire l’economia italiana. Per fare questo, però, devi avere dei mezzi concreti su cui contare: finanziamenti, anche piccoli, per avere delle idee da realizzare. Le leggi italiane andrebbero riviste in questo senso ed è questo uno dei motivi della sfiducia diffusa verso le istituzioni politiche: gli scandali, le tasse, le promesse fasulle non fanno che alimentare una sfiducia non solo verso se stessi, ma anche verso l’ambiente politico ed economico esterno. Un imprenditore in difficoltà ha dunque bisogno di uno spiraglio, di un’ancora a cui aggrapparsi, anche perché chi ha la responsabilità sulle proprie spalle di persone che dipendono da lui vive un equilibrio delicato che può essere messo a repentaglio. Ecco perché l’idea di creare sportelli di ascolto a cui potersi rivolgere in caso di bisogno diventa importante: devono essere però accolti in un certo modo, non deve servire a creare ulteriore caos, ma a capire cosa si può risvegliare nell’animo di una persona sfiduciata, ricreare un autostima per fare in modo che possa tornare a credere in se stessa e dare un contributo al paese.

Il fallimento di un’azienda è un evento complesso, che riguarda molteplici dimensioni: in primis l’idea di sé...
Esatto, l’imprenditore vede l’azienda come una propria creatura: quando l’azienda sta male, anche l’imprenditore sta male e si vede perso. Sono pezzi del proprio corpo che vengono troncati, ma l’anima rimane ed è lì che si può fare qualcosa, per fare in modo che viva in maniera materiale. Molti imprenditori non vogliono nemmeno lasciare l’azienda ai propri figli: spesso si sono fatti da sé e considerano il lavoro in azienda molto importante, ma non reputano i figli all’altezza di questo compito, così come spesso le figure femminili vengono considerate meno di quelle maschili. Non dare fiducia alle proprie membra rappresenta però la morte di un’azienda: occorre pertanto rivedere anche il discorso generazionale, rendendo partecipi i figli dei sacrifici che lo stesso imprenditore ha dovuto affrontare, evitando di accollarsi tutto fino a 85 anni e non mollare. La vera sfida è tramandare la propria azienda, il proprio lavoro, con responsabilità e coscienza. Alessandro Belotti

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