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«Racconto il mondo a colori degli anni ‘60 oggi, con Trump, a trionfare il nero»

maggio 2025

Sostiene che la vita sia la somma di tutte le esperienze inanellate lungo un cammino. Sovrapposizione, stratificazione: un labirinto all’interno del quale è vietato rimanere fermi, poiché è nella stasi che alberga il rischio di perdersi.
E Walter Veltroni, fermo, non lo è stato mai.
Giornalista e direttore de L’Unità (che, sotto la sua guida, registrò un incremento di 30mila copie, grazie, anche, all’intuizione di allegare al quotidiano, libri e VHS).
Sindaco di Roma, vicepresidente del Consiglio nel Governo Prodi, Ministro della Cultura, fondatore e Segretario del Partito Democratico. Capace - caso più unico che raro - di abbandonare la poltrona (benché ami precisare di aver «rinunciato al potere, non alla politica»).
Da quel momento, si è dedicato anima e corpo a due delle sue grandi passioni: la regia (di documentari e commedie) e la scrittura, con editoriali e memorabili interviste per il Corriere della Sera, nonché dando alle stampe saggi e romanzi (come la fortunata saga del commissario Buonvino).
E ora, proprio per non incorrere nel rischio di smarrirsi nel labirinto della vita, Veltroni approda a teatro: raccontando gli ultimi decenni del secolo scorso, con lo sguardo di chi è stato (e continua ad essere) protagonista della storia politica e culturale del Paese.
Il primo capitolo di questo progetto di ampio respiro, intitolato “Le emozioni che abbiamo vissuto” è dedicato a “Gli Anni Sessanta. Quando tutto sembrava possibile”. La quarta tappa nazionale della tournée lo porterà a Bergamo, alla Chorus Life Arena, venerdì 21 marzo.
Gli anni Sessanta, dice, hanno mostrato come l’impossibile, in fin dei conti, fosse realizzabile. Quale, tra i tanti avvenimenti concretizzatisi in quella decade, le fece strabuzzare gli occhi?
«La cosa più bella era l’atmosfera: la sensazione che tutto stesse cambiando, che in ogni angolo sbocciassero dei fiori. Che si trattasse della musica, del cinema, del modo di vestirsi o delle relazioni tra le persone: si stava passando dal bianco e nero, al colore. L’evento che mi stupì maggiormente? I dischi dei Beatles, ad esempio: furono una rivoluzione clamorosa. O il primo uomo nello spazio: quel decennio si aprì con Gagarin e si concluse con Armstrong, Collins e Aldrin sulla luna. E, nel mezzo, James Bond, Che Guevara, Don Milani, Robert Kennedy, Martin Luther King: era un mondo che continuava a cambiare  pelle. Si respiravano energia, possibilità».
Quale, invece, la grande promessa non mantenuta, l’utopia di quella decade?
«Sotto un certo punto di vista, quasi tutte le utopie di quel tempo hanno trovato la loro realizzazione: penso al divorzio, all’aborto. Anche il 1989 (con la caduta del Muro di Berlino, ndr), in fondo, è una conseguenza dell’energia di quel momento. Quella che non si è realizzata - e mi verrebbe da dire per fortuna - è la dimensione ideologica della seconda parte, dal ’68 in poi. Ma l’energia civile e culturale che si misero in moto, rimangono uniche. Fu come se nelle case di ogni ragazzo sulla faccia della Terra, in quei dieci anni, fosse cambiato qualcosa. Il mondo del 1959 e quello del 1963 erano diversi: in quattro anni erano mutate le persone, l’idea di libertà, il cinema, la musica, il modo di relazionarsi con gli adulti, lo stare a scuola. Gli anni Sessanta ci fecero scoprire che le età della vita non erano più due - o bambini o uomini -, ma c’era un qualcosa che stava nel mezzo: la gioventù».
In quella decade, lei - classe 1955 - passò dall’infanzia all’adolescenza. Prendo a prestito un toccante dialogo tra Stefano e Giovanni - ovvero Stefano Fresi e Giovanni Fuoco, i protagonisti del suo primo e acclamato lungometraggio, “C’è tempo” - per chiederle se abbia memoria del momento esatto in cui smise di essere bambino.
«Forse non è mai successo: nel senso che non ho mai smesso di coltivare quella stagione, dentro di me. E, anzi: diffido delle persone che negano o dimenticano il loro essere stati fanciulli. L’infanzia è il tempo in cui sono raccolte le cose migliori: il desiderio di scoprire, l’innocenza, la sincerità, alle volte persino spietata, poiché scevra di sovrastrutture. Ma, dovendo darle una risposta, cito l’assassinio di John Kennedy: avevo 8 anni e, all’improvviso - in un frangente in cui tutto sembrava gioioso - la morte fece irruzione nei miei giorni, e in quelli della collettività».
Le è capitato, lavorando a questo spettacolo, di rammaricarsi per un avvenimento che avrebbe voluto fosse raccontato agli italiani da suo padre, Vittorio (direttore del primo TG della RAI, nonché voce di radiocronache leggendarie, come l’elezione di Luigi Einaudi alla Presidenza della Repubblica, l’alluvione del Polesine o i funerali della squadra del Grande Torino, ndr)?
«Non c’è un evento specifico. È stato soprattutto quando sono diventato padre, che mi è venuta una grande nostalgia del mio, di papà: desideravo conoscerlo, poiché era scomparso quando avevo soltanto un anno. Dieci anni fa, scrissi un libro dedicato a lui: si intitola “Ciao”, perché è quella la parola che più mi manca. L’italiano è l’unica lingua in cui lo si usa con doppia valenza: quando ci si incontra e quando ci si congeda. Ecco, avrei proprio voluto pronunciarlo, quel “ciao”: all’inizio della nostra vita e alla fine della sua».
Negli anni Sessanta, diceva, il mondo era a colori: mentre oggi la società sembra essere tornata in bianco e nero. Trump alla guida degli USA è il trionfo del bianco e nero, o direttamente del nero?
«È il trionfo della banalità, dello spirito di odio, della vendetta, del rancore, della violenza verbale: di tutto ciò che a me non piace e, quindi, sì, del nero. Mi fa vivere il presente con grande preoccupazione. Ecco perché ritengo che, in un momento dominato dalla paura, la restituzione della speranza sia importante. Del resto, è stata la speranza a creare l’Europa: Altiero Spinelli ha iniziato a fantasticare sull’unità di questo Continente, mentre ci massacravamo gli uni con gli altri; a quindici anni di distanza dai bombardamenti che misero fine alla Seconda Guerra Mondiale, l’Europa rifioriva e si univa. Reputo doveroso nutrire di speranza - non retorica - un tempo dominato da ansia, paura e rancore. Sono sentimenti neri: e Trump ne è la massima espressione».
Definisce i social come “coriandoli di niente”. Eppure, cariche importanti del Governo e delle istituzioni questi coriandoli non solo li lanciano, ma li creano. Forse è arrivato il momento di legiferare sul loro utilizzo.
«Penso alle due grandi rivoluzioni vissute dalla mia generazione: la televisione e l’automobile. Per entrambe, sono state istituite delle regole: è stato creato il codice della strada, sono state stabilite le norme per le quali esistono programmi che possono andare in onda soltanto in determinate fasce, e così via. Da sempre, la democrazia cerca un punto di armonia tra le tecnologie e la qualità della vita delle persone. Di fronte ai social, invece - la rivoluzione più intrusiva della storia dell’umanità - si sono tirate giù le braccia: ciascuno si limita a partecipare a un circo in cui si lanciano coriandoli e pietre, spesso confondendo gli uni con gli altri. Nell’era dello shit storm, della banalizzazione e della radicalizzazione, con un linguaggio che si fa via via più violento, è bastato che l’Europa iniziasse a ragionare su qualche regola, perché Musk e gli altri si scatenassero».
Le ho sentito utilizzare un termine, caro a Berlinguer, ma sconosciuto ai più: “anfanare”. Ovvero, parlare a vanvera, affannarsi inutilmente. Viene in mente il polverone sollevato dalla Lega a Buccinasco, in seguito all’adozione, a scuola, del libro che lei ha scritto per spiegare la Costituzione ai bambini: “La più bella del mondo”.
«Viviamo sommersi dalle banalità di tutti i giorni: si è sostituita la profondità, con la velocità. E questo rende la nostra esistenza ordinaria. Quando mi hanno telefonato i colleghi di varie testate, chiedendomi di rilasciare una dichiarazione, davvero non sapevo come replicare: se uno scambia Pio La Torre con un caso di gender, è difficile aggiungere altro. Posso mettermi a ridere, se non a piangere, ma non è una cosa seria. Ci si perde per delle follie: perché questo è un tempo che, anziché essere vissuto, viene “scrollato”».
“Gli Anni Sessanta. Quando tutto sembrava possibile” è il primo capitolo di una saga che condurrà fino alla fine del ventesimo secolo. Qual è il suo decennio del cuore?
«Dal punto di vista lavorativo, sicuramente gli anni Novanta: sono stato direttore de L’Unità, vicepresidente del Consiglio. A livello personale, invece, gli anni Settanta: tra i 15 e i 25 anni, una stagione viva e turbolenta, quella in cui si fanno più esperienze. Fu un’epoca dal doppio volto: da un lato le grandi speranze - con il referendum sul divorzio o la vittoria della sinistra alle elezioni -, dall’altro l’avvento del terrorismo e il dilagare dell’eroina, che si portò via alcuni amici ».
Qual è il suo legame con la città di Bergamo? Sul suo Instagram compare un post dedicato a Ermanno Olmi, definito “uomo di rara curiosità e dolcezza”.
«A Bergamo mi legano tante cose. Uno dei ricordi più importanti ha a che fare con una manifestazione del 2008, al Palazzetto dello Sport: era gremito, ma al di là del mero dato numerico, a colpirmi fu l’atmosfera che si respirava. Ho, poi, un rapporto speciale con gli ultimi due sindaci - Giorgio Gori ed Elena Carnevali - così come con Nando Pagnoncelli e Gian Piero Gasperini: gli voglio molto bene e lo stimo profondamente. Mi ha sempre affascinato l’incrocio di culture della vostra città: una cattolico-democratica - tant’è che, in passato, ho preso parte a una serie di conferenze, organizzate da Enzo Bianchi, sulle beatitudini - e una di sinistra. Come vede, sono diversi i motivi che fanno sì che Bergamo occupi un posto speciale nel mio cuore».
Rossella Martinelli


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