Personaggi
Il «mito provinciale» di Feltri, raccontato da Vittorio
Ci riceve nel sontuoso salotto della sua dimora meneghina: uno scrigno rivestito di boiserie, in cui abbondano cimeli, premi, foto, che ripercorrono i trionfi di una vita trascorsa a fondare o rianimare testate, riscrivendo il corso del giornalismo italiano.
Eppure, Vittorio Feltri non si sofferma su nessuno di essi; semmai, esibisce compiaciuto le decine di pupazzetti di peluche che adornano la sua alcova: alcuni sono disposti intorno al camino, altri poggiano sulla testiera del letto. «Me li hanno regalati, sapendo della mia passione per gli animali. Mi piacciono: mi fanno compagnia».
Di lì a poco, fa capolino Ciccio - il suo gatto prediletto, sotto il cui manto abbonda il grasso corporeo di cui il padrone di casa è totalmente privo («dacché ho memoria, peso 70 chili scarsi, per 182 centimetri: sono sempre stato inappetente») - e il Direttore si scioglie. La medesima soavità aleggia nel suo sguardo quando, poco prima di congedarsi, prende per mano la compagna di una vita, Enoe (da lui chiamata “la Bonfanti”).
Da decadi viene dipinto come un’icona del cattivismo, uno che «a tavola è vegetariano, ma di fronte alla macchina da scrivere è carnivoro» eppure, trascorrendo del tempo in sua compagnia, si finisce col pensare che la narrazione passata agli annali non corrisponda a questo elegante e divisivo ottuagenario, che alterna il sarcasmo a un’inaspettata delicatezza. Insomma, Feltri non è per niente cattivo: lo disegnano così.
Ha appena dato alle stampe il suo primo libro di cucina, firmato a quattro mani con Tommaso Farina: “Mangia come scrivi” (edizioni Albatros), una guida volta a riscattare “L’alta cucina del Nord” (come recita il sottotitolo). Tra i trentacinque ristoranti recensiti, ne figurano alcuni ben noti ai bergamaschi: Da Vittorio, Frosio, Osteria tre gobbi, la Trattoria Falconi e il Pianone.
Scrive: “Bergamo, nonostante molti sembrino dimenticarlo, è stata una delle città culturalmente più vivaci del nord Italia”. Una vivacità culturale che, per estensione, abbraccia anche la cucina.
«Ormai vivo e lavoro a Milano da cinquant’anni, ma Bergamo è sempre rimasta nel mio cuore, così come la nostalgia per alcuni luoghi a me cari. Ora, ad esempio, sto aspettando che arrivi la bella stagione, per andare a pranzo al Pianone»
Finché Da Vittorio si trovava in viale Papa Giovanni XXIII, aveva l’abitudine di andarci a cena ogni domenica, con moglie e figli (le gemelle Saba Laura e Laura Adele, Mattia, Fiorenza).
«Era la nostra tradizione domenicale. Ogni volta, ordinavo lo stesso piatto: dei tortellini con burro, salvia e parmigiano («Si trattava dei “Ravioli della nonna”: una ricetta di mio suocero», ci rivela lo chef Paolo Rota, marito di Rossella Cerea). Da quando io e la Bonfanti ci siamo trasferiti in pianta stabile a Milano, sono i figli che vengono a farci visita, il sabato sera: ma mai tutti insieme, o li sbatto fuori di casa! Saremmo in troppi!»
Si nutre - sia a pranzo, che a cena - di un uovo crudo, sbattuto con il Marsala. È un retaggio della sua infanzia?
«No, è un’usanza di mia moglie, che è originaria di Colzate: è lei la padrona della cucina e io mi adeguo. Va detto che ho sempre mangiato poco».
Infatti l’uovo sbattuto, di solito, si dà ai bambini inappetenti o cagionevoli: pensavo glielo propinasse sua madre, Adele.
«No, perché avendo perso il papà a sei anni, mia mamma doveva lavorare tutto il giorno, per mandare avanti la famiglia. A cucinare per noi era sua sorella, la zia Tina, che preparava piatti tipici bergamaschi».
Quale pietanza innesca in lei l’effetto madeleine?
«L’uovo. Ma non uova qualsiasi: rigorosamente nostrane. Ce ne spedisce a quintalate un’amica della Val Gandino».
Magari, prima o poi, le arriverà un cartone anche da parte di Sofia Goggia, che lei definisce “l’incarnazione femminile di Bergamo”. È socia di “Le Selvagge”: un’azienda agricola nei pressi di Nembro, in cui le galline - all’incirca 2500 - scorrazzano libere, ascoltando musica classica.
«Ma davvero? Questa notizia mi fa impazzire. Le galline sono tra le creature più intelligenti che esistano in natura: alla faccia dell’infelice espressione “cervello da gallina”! Inoltre, sono estremamente accudenti con i loro piccoli: dopo la cova, continuano a seguirli, finché non sono totalmente autonomi. Io gli animali li amo tutti: non uccido nemmeno le zanzare. Tempo fa, ho persino allevato un topo».
Un topo?
«Ci eravamo trasferiti in una spaziosa cascina nelle zone di Treviglio: vivere in città, con cinque bambini, non era un granché e loro avevano bisogno di spazi per correre. Eravamo circondati da galline, capre, cavalli e poi c’era anche questo topolino, che faceva capolino la sera, tardi, in sala da pranzo, quando rincasavo dal “Corriere della Sera”. Mi fece visita per mesi: gli allungavo sempre un po’ di cibo»
È vegetariano.
«Alle volte, lo confesso, cedo a qualche fetta di salame bergamasco. Frega il fatto che non abbia la forma dell’animale. Ed è buonissimo».
La scelta di non mangiare carne deriva da un trauma legato all’infanzia.
«Andavo spesso da mia nonna, che abitava in Città Alta, in via Arena. Aveva galline e coniglietti. Ecco, un giorno, afferrò un coniglio per le orecchie, lo mise a testa in giù e gli diede un colpo sulla testa: fu una cosa orribile!».
Non si ciba nemmeno di pesce.
«Perché nel mare finiscono le deiezioni degli otto miliardi di persone che popolano questo Pianeta».
Eppure, il pesce è protagonista assoluto delle tavole importanti. Questa scelta le ha mai causato imbarazzo?
«Ma no, non me ne importa niente! E, alla fine, qualcosa con cui rifocillarsi lo si trova comunque».
Nemmeno Silvio Berlusconi mangiava pesce. Ne detestava persino l’odore.
«Andavo spessissimo a cena con lui e da lui. Anche alle famose “cene eleganti”: eppure, non ho mai visto succedere nulla di ciò di cui si è scritto. Anzi, faticavo addirittura a procurarmi un dito di whisky! Dovevo alzarmi ed andare in salotto a prendermi la bottiglia. Il menù non cambiava mai: un primo tricolore - con un po’ di pasta rossa, un po’ di pasta bianca e un assaggio di quella verde - , un arrosto e un dolcetto. Insomma, non è che fossero banchetti di grande livello, in termini gastronomici: partecipavo con lo stesso spirito con cui si va a casa di un amico».
A proposito di pasta verde: nel libro, non fa alcun riferimento alla cucina ligure.
«Ha ragione, eppure mi piace. E trovo fantastica la focaccia».
Le è mai capitato di attovagliarsi con Maurizio Crozza - magari a Boccadasse - per gustare un piatto di trofie al pesto?
«No, pensi che io Crozza non l’ho mai conosciuto di persona. Come tutti, lo vedo in TV: e mi fa ridere, sebbene mi attribuisca frasi che non ho mai nemmeno pensato. La prima volta che mi imitò, qualcuno mi avvertì: era un venerdì sera. L’indomani mi recai in uno dei più bei negozi di Milano: acquistai una magnifica giacca blu, taglia 52, con pochette. Mi procurai il suo indirizzo e gliela spedì, accompagnata da un biglietto: “Caro Crozza, se mi vuoi imitare, cerca almeno di vestirti decentemente, come me”. Non mi ha mai ringraziato, ma ho constatato che la indossa spesso».
Lei è un esteta: al punto che, in casa, ai suoi figli era vietato indossare tute o jeans.
«Non mi piacciono. Lo dico anche in redazione, che bisogna vestirsi in maniera decorosa: questo è un mestiere che impone di stare a contatto con la gente, pertanto è indispensabile portare un minimo di rispetto».
Si è mai confrontato con un altro illustre e longevo orobico, nonché parco mangiatore - il professor Silvio Garattini - in merito alle vostre abitudini alimentari?
«Garattini è un fenomeno della natura. Intanto ha ragione lui su tutto, dal punto di vista medico e salutistico. C’è da dire che il suo stile di vita è quello di un monaco di clausura: difficile attenervisi scrupolosamente. Io, poi, che fumo…».
Quanto fuma?
«Piu che posso».
Non ha mai smesso?
«Me ne sono guardato bene! Ho 82 anni e ho iniziato quando ne avevo 13. Un paio di anni fa, sono stato operato al polmone (per un piccolo versamento, ndr); in sala operatoria, insieme a Giulia Veronesi - che ha eseguito l’intervento - c’era la mia amica, nonché medico, Melania Rizzoli. Arrivate ai polmoni, erano certe di trovare il catrame: invece erano rosa, come il culetto di un neonato».
Fino all’ultimo, ha avuto l’abitudine di andare a cena con Indro Montanelli.
«Uno che mangiava persino meno di me: due bocconi di spaghetti ed era sazio. Ci davamo appuntamento alla Tavernetta di via Fatebenefratelli. Aveva un’usanza curiosa: teneva il fiasco del vino per terra, sotto il tavolo, come facevano i contadini bergamaschi».
Dice che Milano è il cervello d’Italia. E Bergamo?
«Il cuore. Lo ha dimostrato ampiamente durante il Covid. Ne dà continuamente prova anche l’Atalanta».
Quale è il suo calciatore preferito?
«Tanti. Mi spiacerebbe citarne uno: mi sembrerebbe di fare un torto agli altri. Sono tutti bravi».
Mio marito, atalantino sfegatato, sostiene che il più forte di tutta la rosa sia Gasperini.
«Condivido la posizione di suo marito. Poi, il Gasp l’ho conosciuto ed è pure molto simpatico».
Sa che è amico di Walter Veltroni?
«Non lo sapevo. Speriamo che non sia anche comunista».
Ha scritto: “Penso in bergamasco ed è un guaio, perché poi mi tocca tradurre e si perdono le sfumature”.
«In italiano “pòta” è intraducibile; eppure, detto così, suona bene, è elegante. E le potrei fare mille altri esempi. Il bergamasco lo conosco benissimo e qualche volta lo parlo, con mia moglie. Le cosiddette “sarache”, poi, sono rigorosamente in dialetto! È la lingua della mia infanzia».
Del resto, anche con il suo padre putativo - monsignor Angelo Meli, originario di Trescore Balneario - interloquiva in bergamasco o in latino. Mai in italiano. A lui si deve il testo di “Astro del ciel”: si commuove, quando le capita di ascoltarlo?
«Moltissimo. Gli devo tutto. Le racconto questo aneddoto: un pomeriggio - era sabato - mi chiese se potessi suonare l’indomani, alla messa della domenica in Santa Maria Maggiore, in Città Alta, perché l’organista si era ammalato. Io, ovviamente, non conoscevo nessun brano sacro. Così, ebbi un’intuizione: e quella mattina, nell’affollatissima basilica, suonai Gershwin, un filo riadattato. Nessuno si accorse di nulla, ma finita la funzione don Meli venne da me, urlando: “Disgrassiàt!”. Non sono mai stato un grande pianista, sebbene da giovane suonassi in un night di Lecco, il Don Rodrigo, la domenica sera: mi pagavano 50mila lire a serata, che in un mese facevano lo stipendio di un direttore di banca».
È autore di titoli leggendari. Come intitolerebbe la sua vita?
«“Mito provinciale”. Perché la provincia è sempre rimasta ben salda dentro di me».
Rossella Martinelli