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Personaggi

BRUNO SANTORI

«I miei progetti per il futuro vorrei dedicarmi ai giovani»

novembre 2015

Bruno Santori non lo si intervista, lo si ascolta: dall’inizio alla fine, sia mentre parla che quando suona. Il maestro bergamasco, che ci ha accolto nella sua splendida casa, ha infatti (piacevolmente) sconvolto tutta la scaletta preparata per quest’intervista: sin dal primo minuto ha iniziato a parlare a ruota libera, ricostruendo non solo la propria carriera (che lo ha portato a diventare direttore dell’orchestra sinfonica di Sanremo), ma anche l’atmosfera musicale e socio-culturale degli anni ‘70 e ‘80, per poi affrontare le riflessioni sul presente e sul futuro della musica in Italia. Inframezzando il discorso, “en passant”, con le note che sembravano uscire come per magia da strumenti che non si vedono tutti i giorni: un pianoforte classico, un Oberheim, un Hammond degli anni ‘60, un Rhodes e un organo liturgico. Tutti armeggiati con una disinvoltura e un estro con pochi eguali.

Santori, lei iniziò a suonare sin dalla più tenera età. Da cosa le derivò questa passione?
Avevo un padre molto appassionato di musica, suonava anche la fisarmonica pur facendo tutt’altro mestiere nella vita. Mi ha dunque consegnato un amore, trasmettendomi questa sua passione che ha contagiato anche mio fratello: per spirito di emulazione all’età di 4-5 anni ho dunque iniziato a suonare pianoforte, prendendo lezioni da Silvio Marchesi, importante didatta della Bergamasca. Rimanevo però molto legato alla musica pop: a 8 anni ho quindi debuttato nel primo concerto dal vivo, con un gruppo chiamato “Le Meteore”, in un locale chiamato “la Cascina Bianca”, quello che attualmente è il Bobadilla. A 9 anni ho inciso il primo disco, dal titolo “Guarda” con l’etichetta “Bentler Eldorado”; quel brano precedentemente era già stato portato al successo dal gruppo dei Rogers.

Quali furono i passaggi fondamentali della sua carriera?
Mogol venne a Dalmine, invitato ad nostro concerto: in quell’occasione ci tenne a essere considerato il “padrino” del nostro gruppo (allora si chiamava così, oggi lo definiremmo il produttore), i “Raminghetti”, in cui ero tastierista: quella serata presentavamo un disco che avevamo fatto con lui e Mario Lavezzi, i cui brani erano “Un eterno amore” e “Fiori dell’anima”. Ci ispiravamo, anche nel nome, ai “Raminghi”, un complesso molto famoso a Bergamo (“Guarda tuo padre” è un vinile richiestissimo, ancora oggi) e in cui suonava mio fratello. In breve tempo diventammo quasi famosi: tv, radio, persino concerti all’estero, in Svizzera. Detto oggi sembra quasi paradossale, ma recarsi nel paese elvetico allora significava davvero andare all’estero. Una sera ero a Martinengo, in un locale di cui non ricordo più il nome, per un concerto: ebbene durante la pausa un signore, che aveva circa 24 anni ma che per me che ne avevo 14 era un adulto, mi disse che voleva parlarmi di una band. Gli risposi che avrebbe dovuto parlarne con mio padre e così fece: era Gianni Dall’Aglio, il batterista di Celentano, che stava formando un nuovo gruppo, “Il Volo” e voleva che ne facessi parte. Allora ero considerato un tastierista rock emergente, ma non accettai la sua proposta, preferendo rimanere dove ero. Lui però parlò di me alla Emi italiana, che stava creando la band “Daniel Sentacruz Ensemble”: feci un’audizione e mi presero subito. Da allora suonai in una delle 5-6 band più importanti d’Italia: “Soleado” vendette qualcosa come 30 milioni di copie nel mondo e nel 1976 andammo a Sanremo con “Linda bella Linda”.

Lei però fece una scelta controcorrente: abbandonò una band di successo...
Ad un certo punto sentii il richiamo della musica classica. Mi tolsi dalla scena musicale, per studiare anche 12 ore al giorno, sabato, domenica e festività incluse. Mi diplomai in pianoforte a 22 anni con Paolo Bordoni, grande concertista bergamasco, e poi andai a Londra per perfezionarmi con Arnaldo Cohen. Poi divenni allievo di Franco Ferrara (maestro dei più grandi direttori d’orchestra a livello internazionale, un vero “maestro dei maestri”) e infine diventai direttore d’orchestra.

Come giudica il panorama musicale attuale?
Da almeno 20 anni spesso sento rifare le stesse canzoni e mai in modo migliore. Non so spiegarmi il motivo, ma dopo l’11 settembre, fra le altre cose accadute, è crollata la discografia e le etichette indipendenti sono pressoché scomparse. Il gusto popolare oggi è molto al ribasso e la maggior parte delle strutture che si occupano di musica non fanno che assecondarlo. E anche le barriere tra i generi costituiscono un fenomeno tutto italiano: la contaminazione è qualcosa di fondamentale, anche per sperimentare. Oggi dunque continua la mia lotta per far capire che la musica è una sola. E sono più che mai convinto che la nuova musica classica sia il jazz.

Cosa consiglierebbe a un giovane musicista?
Ho avuto veramente tanto dalla vita e vorrei trasmettere qualcosa ai giovani: sono molto preoccupato per loro, che sicuramente non avranno le stesse opportunità che ho avuto io. La società odierna è strutturata con lobby chiuse, è spesso antidemocratica e sentir parlare di meritocrazia mi fa paura: chi decide i meriti? Vorrei potermi spendere per i giovani e per la loro formazione, cosa che d’altra parte sto già facendo.

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