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Economia

IL CONVEGNO DEL PD DI LOVERE

AGNELLI: «jobs Act di per sé non crea lavoro, devono arrivare gli ordini e le commesse»

febbraio 2015

Sindacati, politica e imprese: tre mondi molto diversi tra di loro per una sera riuniti intorno a un tavolo per discutere sul Jobs Act, la riforma del mercato del lavoro voluta dal premier Renzi. Lunedì 15 dicembre, alla sala della Comunità Montana, a Lovere, è dunque andato in scena un dibattito vivace (ma costruttivo) tra i rappresentanti di questi tre componenti fondamentali della società italiana: all’incontro, organizzato dal coordinamento Pd Alto Sebino e dal circolo di Lovere, hanno partecipato Paolo Agnelli, presidente di Confimi Impresa, Antonio Misiani (deputato del Partito Democratico), Daniele Gazzoli (Cgil) e Vincenzo Dacunzo (Cisl).
Nel corso dell’incontro sono dunque emerse posizioni molto diverse, ma unite dal desiderio di far ripartire e di rimettere in moto il nostro paese, sfiancato da una crisi economica, politica e sociale senza precedenti.
A rompere il ghiaccio è stato Daniele Gazzoli della Cgil, che ha incentrato il suo intervento sulle problematiche tuttora esistenti nel mondo del lavoro: “Credo che di per sé il Job Act non invertirà il trend economico. Nella Finanziaria e nel Job Act mancano quelle forme in grado di creare occupazione, l’aspetto fondamentale su cui dobbiamo concentrarci. Invertire la questione di come posso assumere o licenziare non farà infatti ripartire l’economia: sull’Art.18, ad esempio, si è deciso di dar ragione a quel 2% di imprenditori che dicono di non investire in Italia perché non c’è l’Art.18. Renzi ha rivendicato con orgoglio alcuni passaggi come: “Non dobbiamo discutere con le organizzazione sindacali, non mi faccio dettare la linea”. Il sindacato, però, cerca di misurarsi con l’interesse generale del paese e quello del premier è un attacco al ruolo confederale: attenzione, perché i sindacati rappresentano il miglior argine ad alcuni fenomeni degenerativi del nostro paese”.
Per Dacunzo della Cisl “il dibattito sull’art.18 ha oscurato tutte le parti positive di questa legge: come organizzazione sindacale ci batteremo sempre per mantenere il reintegro per tutto ciò che è immotivato. Detto questo, la linea scelta dal governo non è andata nella direzione del dialogo con chi rappresenta il mondo del lavoro, ma c’è bisogno di un patto sociale per lo sviluppo, che non può essere fatto in solitaria. Il paese ne ha bisogno per ripartire, per uscire dalla profonda crisi sistemica che sta attraversando”. Dopo il punto di vista dei rappresentanti del mondo sindacale, l’incontro ha visto l’intervento del presidente di Confimi Impresa, Paolo Agnelli, che ha ribadito le priorità per le Pmi: creare le condizioni perché le imprese possano essere competitive a livello globale: “Si parla tanto di “Art.18 sì, Art.18 no”, ma  la vera domanda è: arrivano gli ordini? No, non arrivano e su alcune cose mi sento d’accordo con la Cgil e la Cisl. Gli ordini non vengono emessi perché qualcuno ci sta portando via le commesse (parliamo di export, perché i consumi interni sono al minimo storico).
Nell’epoca della globalizzazione nei nostri supermercati arrivano pentole cinesi e prodotti tessili dalla Cambogia: questo significa azzerare il lavoro in Italia, basti pensare che soltanto la Cina esporta nel nostro paese 30 miliardi di prodotti. Abbiamo aperto le frontiere, senza nessun tipo di protezione e i nodi sono arrivati al pettine.
Per contro, come fanno le nostre imprese ad andare ad aggredire i mercati esteri con un costo fiscale del lavoro più alto d’Europa e le paghe più basse del Vecchio Continente? Come se non bastasse, abbiamo il costo dell’energia elettrica più alto del mondo: 1 kW di energia sul mercato costa 54 dollari, ma viene venduto alle aziende a 190 euro. Tra accise e formula varie avviene dunque una quadruplicazione del costo iniziale. Come può dunque essere competitiva un’impresa sui mercati esteri se massacri il lavoro e l’energia?”.
Nel suo intervento, Agnelli ha sottolineato come l’Italia parte svantaggiata a livello competitivo non solo a livello globale, ma anche rispetto ai paesi dell’Europa dell’Est: “Guardiamo alla concorrenza in Europa, alla Polonia, per esempio. Ebbene,un operaio nostro costa come quattro loro, mentre se noi abbiamo un costo dell’energia più caro dell’83% rispetto alla media europea, loro hanno un costo inferiore del 17% rispetto alla media europea - ha sottolineato il presidente di Confimi Impresa - è quindi evidente che il divario, in questi due settori cruciali per le Pmi, è troppo ampio. Per tutti questi motivi la politica non può avere come orizzonte soltanto le prossime elezioni, specialmente in una situazione di emergenza come quella attuale: mentre i partiti litigano tra di loro, ogni ora chiudono 4,2 imprese.
Dobbiamo quindi metterci in testa che non stiamo parlando soltanto di una crisi, che è di per sé ciclica, ma di un vero e proprio status e dobbiamo porci alcune domande: vogliamo tenere la siderurgia o la vendiamo a indiani e tedeschi? Lo Stato deve farsene cura e su questo punto sono perfettamente d’accordo con la Fiom: dobbiamo costruire un po’ di scheletro a questa nazione. Dal 2008, ossia dall’inizio della crisi, hanno chiuso 600mila imprese, dato impressionante di per sé, ma c’è dell’altro: quando chiude un’azienda da 5,10,15 dipendenti non chiude solo il titolare, ma si va a perdere un know-how unico, non nascerà più una squadra composta da questi bravi operai.
Per questo motivo litigare sull’Art.18 è sbagliato quando la nave sta affondando, bisogna concentrarsi sui problemi veri: costo del lavoro e dell’energia in primis, ma anche tempi della giustizia e lotta alla corruzione. Sono questi i motivi che ostacolano chi vuole investire in Italia, non altri”. Per il parlamentare del Pd Antonio Misiani “invertire il ciclo economico è compito delle politiche economiche a livello europeo, anche perché la linea la dà Bruxelles.
Non è certo compito di una riforma del mercato del lavoro rilanciare l’economia: detto questo la politica è chiamata a creare soluzioni per chi fa impresa. L’obiettivo della Legge Delega è quindi quello di far funzionare meglio il mercato del lavoro: su 100 persone assunte soltanto 16 hanno un contratto a tempo indeterminato, gli altri hanno contratti flessibili o precari.
Anche in una fase di crisi è quindi giusto cambiare le forme contrattuali e rafforzare le reti e e le soluzioni di reintegro nel mercato del lavoro, attraverso forme di sostegno condizionate all’attivazione per cercare una nuova occupazione. In questo senso la Legge Delega ci avvicina agli altri paesi europei e va nella direzione giusta, incentivando il contratto di lavoro a tempo indeterminato. Per quanto riguarda l’Art. 18, la revisione dell’istituto della reintegra ha la filosofia di dare certezza alle imprese nel momento in cui assumono un lavoro a tempo indeterminato a fronte delle incertezze.
Per contro, il dibattito sull’Art.18 è stato caricato di ideologia, mentre avrei preferito che ci si concentrasse su altri aspetti. Non ho quindi condiviso alcuni accenti utilizzati dal premier nella sua dialettica con i sindacati, ma ci sono stati anche toni eccessivi nelle risposte da parte sindacale: è stato un po’ discutibile, infatti, proclamare uno sciopero generale contro un governo che nelle legge di Stabilità ha previsto 10 miliardi per il lavoro dipendente, un’operazione di certo non paragonabile a quella di altri governi”.
Agnelli ha infine voluto ribadire la propria contrarietà ai dettami troppo rigidi imposti dall’Unione Europea, eccessivamente dannosi per le imprese italiane e per la ripresa economica del nostro paese: ”Nel confronto con l’Europa dobbiamo mettere alcuni paletti: Fiscal Kompact e rapporto deficit/Pil al 3%  sono vincoli che non siamo in grado di mantenere: se ci facciamo comandare dalla Bundesbank o dalla Merkel andiamo alla rovina.
L’Unione Europea è nata in tempi non sospetti e con intenti nobili, ma oggi vediamo che i singoli paesi, come la Germania e i paesi del Nord, guardano alle loro finanze e ci chiamano “Europa del Sud”: è un concetto mutuato dalla banche, ci danno già per spacciati. D’altro canto la politica indotta dall’Europa è quella delle grande finanza, che è diventata troppo forte, e non quella dell’industria: la politica delle banche, che è importantissima per l’economia, si è azzerata e hanno chiuso i rubinetti.
Basilea 3, infatti, non tutela le nostre imprese: come si fa a pretendere che i conti delle aziende siano floridi e con il segno + davanti a tutti gli indicatori? Dopo un periodo così, o sei già morto o sei dissanguato e in crisi. Per Basilea 3 sei fuori, sei escluso. Occorre pensare a queste cose prima di altre”.

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