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Economia

VERSO LE ELEZIONI/2

Andrew Spannaus: «Italia: il vero rischio è la paralisi»

marzo 2018

Sei mesi prima della nomina di Donald Trump a 45esimo Presidente degli Stati Uniti, con estrema lungimiranza e una buona dose di coraggio, il giornalista americano Andrew Spannaus - esperto di economia e geopolitica, nonché fondatore di Transatlantico.info - diede alle stampe un saggio il cui titolo poteva essere scambiato per mera provocazione: «Perché vince Trump - La rivolta degli elettori e il futuro dell’America» (edito da Mimesis). Un’attenta analisi, che prevedeva l’ascesa del leader più discusso dell’ultimo biennio, sebbene in quel mentre i media lo relegassero a una macchietta. Impossibile resistere alla tentazione di chiedergli chi avrà la meglio alle elezioni del prossimo 4 marzo.
Anche in Italia assisteremo alla rivolta dell’elettorato?
«Gli italiani sono stati precursori in questo senso: lo dimostra il voto del 2013, con il Movimento 5 Stelle arrivato al 25% senza sfruttare il mezzo radiofonico o televisivo. In questi anni i partiti più tradizionali hanno fatto di tutto per convincere che i pentastellati non possano realmente governare: eppure potrebbero nuovamente risultare il primo partito. Certo, anche la Lega si schiera contro il sistema: ma non rappresenta un elemento di rottura della portata di Trump per gli Usa».
Qualcuno ipotizza che il vero trionfatore sarà l’astensionismo.
«Senz’altro è in crescita e, a questa tornata, sarà sempre alto. Io temo, invece, che dopo le urne ci sarà una paralisi: mancherà una guida politica forte».
L’Europa teme l’affermarsi del populismo: potrebbe sfociare in una “Ital-exit”?
«Non mi preoccupa questo scenario. Il tema non è se l’Italia uscirà o meno dall’Euro: piuttosto, le politiche europee devono essere modificate; finora nessuno ha avuto il coraggio di costringere l’Europa a cambiare strada. Lo si è visto in Grecia: nonostante il voto contro la Troika, il Governo ha firmato un nuovo memorandum. Bisogna cambiare modello».
Coglie qualche similitudine tra la campagna elettorale in corso in Italia e quella americana del 2016?
«Si tratta di due nazioni molto diverse da un punto di vista politico. In America, la granitica presenza dei due storici partiti, impedisce normalmente a qualsiasi movimento outsider di poter attecchire. Ma Sanders e Trump hanno dato una scossa enorme al sistema. In Italia, invece, la campagna elettorale non è molto diversa dalla dialettica politica di questi ultimi anni».
Ha ancora senso credere nei sondaggi, dopo il flop americano? Tutti davano per scontato la vittoria di Hillary Clinton.
«Se li guardiamo bene, i sondaggi si sono rivelati uno strumento estremamente utile nel corso degli anni. Semmai, la pecca è che il risultato finale si basa su assunti cui arriva il sondaggista: riflettono i suoi pregiudizi politici. Hillary Clinton nel 2016 vinse al voto popolare di 2,5 punti, proprio come dicevano i rilevamenti; il grave errore è stato su alcuni stati chiave: si era dato per scontato che i “latinos” avrebbero votato compattamente per lei, per esempio, perché i sondaggisti hanno stabilito a priori che si trattasse di una categoria interessata soltanto al tema dell’immigrazione e totalmente distaccata da tematiche economico-sociali. Hanno toppato in pieno».
Ha affermato che l’Italia deve tornare a un’economia industriale, senza vergognarsi del sistema produttivo alla sua base. Davvero coglie questa sorta di complesso?
«Vi contraddistingue un atteggiamento subalterno rispetto ad altri Stati europei. Del resto, per anni vi hanno ripetuto che “piccolo è brutto” e che l’azienda familiare è sinonimo di cattiva gestione. Eppure le tante imprese - piccole e medie - alla base del vostro Paese, costituiscono qualcosa di unico in termini di flessibilità, innovazione e filiera corta. È ora che smettiate di prendere lezioni da parte di chi ha finanziarizzato il mondo, decidendo di puntare sui bassi costi».
Vive a Milano, che definisce la New York italiana. Qualcuno sostiene vada troppo veloce rispetto al resto della Lombardia.
«New York è una grandissima città, ma ormai l’industria non c’è più: ha lasciato spazio alla finanza, alla moda, ai servizi. Anche a Milano la sua presenza è ormai ridotta parecchio: il motore industriale è concentrato in città come Brescia e Bergamo. Spero che il capoluogo non perda mai del tutto la sua natura di guida di una regione votata all’industria».
Nel suo libro dedica un paragrafo a una questione che, spiega, interessa molto gli italiani: la somiglianza tra Berlusconi e Trump. La liquida, sottolineando che a parte l’essere due magnati che provengono dal business e la tv, hanno poco in comune.
«Qualcuno cerca di azzardare un paragone sulle loro discese in campo: ma non hanno nulla da spartire. Berlusconi non può essere considerato un vero outsider: nel 1994 andò a colmare un vuoto politico in un momento storico estremamente delicato per il vostro Paese, in cui le capitali Nato temevano l’insediarsi del Pds al Governo. Trump, invece, aveva tutti contro: ha avuto la meglio su un intero sistema».
Certo, Trump e Berlusconi insieme a un G7 farebbero la gioia dei titolisti di mezzo mondo.
«E infatti il rischio di questo mix è che la stampa finisca con lo scrivere dei loro soldi, delle loro donne e delle loro gaffe, distogliendo l’attenzione dai veri problemi che reggono gli equilibri mondiali: ad esempio, i rapporti con la Russia».
Evidenzia come negli USA la parola d’ordine dopo la recessione del 2008 sia stata “salvare le banche”: forse tutto l’Occidente esagera con il bancocentrismo.
«L’intero sistema occidentale - e i relativi governi - ha deciso di essere subalterno al sistema finanziario, che invece detta i termini del dibattito. Negli USA la finanza ha fatto ripagare all’economia reale le sue perdite, generando una profonda dicotomia: austerità per la gente, soldi illimitati per la finanza».
Si lasci andare a un’ultima previsione: nel 2020 Oprah Winfrey diventerà il 46esimo presidente americano?
«Lo trovo poco probabile. Se i democratici pensano di aggiudicarsi le prossime elezioni con un movimento anti-Trump o campagne basate sul “Me too” - senza affrontare le contraddizioni al proprio interno - non andranno da nessun parte. Non bastano l’allure hollywoodiano e il presentarsi come antagonisti di Donald per vincere: è necessaria una profonda analisi politica e sociale».
Anche Clooney è avvisato. (rm)

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